Il mondo che verrà (The World to Come, 2020) di Mona Fastvold, adattamento dell’omonimo racconto del 2017 di Jim Shepard (qui alla sceneggiatura con Ron Hansen, specialista di narrativa western), in concorso alla  77ª Mostra del Cinema di Venezia, sembra battere le stesse strade e affiancare il peculiare percorso di un cinema della nuova frontiera americana, che emerge – con toni, tempi, ruoli e sfumature diverse – in opere come Meek’s Cutoff (2010) e First Cow (2019) di Kelly Reichardt, e nel celebrato Nomadland (2020) di Chloé Zhao. Questione di cambio di prospettiva, dell’adozione di un angolo di visuale inedito e inconsueto, da parte femminile (dietro e davanti alla macchina da presa), per rivisitare sotto nuova luce e sensibilità esistenzialista l’iconico paesaggio geografico – mitico e antropologico – della conquista del West, codificato nell’epica storicizzata da registi come John Ford e Howard Hawks. Mona Fastvold confessa implicitamente la volontà di fissare un personale punto di vista sul mondo rappresentato non appena una delle due protagoniste, uscita di casa nel bel mezzo della notte, appostata all’esterno dell’abitazione della donna che ama, spiega di aver trovato, forse, «un punto panoramico di perfetta sicurezza» attraverso il quale spiarla voyeuristicamente.

Ci troviamo nel XIX secolo, precisamente nel 1856, nel mezzo di un’arida waste land nella contea newyorkese di Schoharie (gli esterni sono in realtà filmati tra i Carpazi in Romania), dove le due donne Abigail (Katherine Waterston) e Tallie (Vanessa Kirby), entrambe frustrate dalla faticosa routine, costrette all’alienante ruolo di donne di casa dai rigidi e oppressivi mariti agricoltori (Casey Affleck e Christopher Abbott), si scoprono fatalmente attratte l’una dall’altra, costrette però a nascondere un sentimento proibito che mette in pericolo i loro destini. 

Post-western desertificato, spogliato d’azione, stilemi e figure canoniche, mélo prosciugato d’enfasi ed eccessi romantici, il film della Fastvold si snoda in un’appartata e guardinga tela di seduzione disegnata in sottrazione, inammissibile e invisibile per il mondo – ma non per questo meno bruciante e totalizzante -, incentrata sui volti intensi e nei piccoli gesti rivelatori di Abigail e Tallie (grande prova di entrambe le attrici).

La sussurrata voice over di Abigail punteggia puntualmente il narrato, ben illustrando il senso della scrittura diaristica e memoriale come vivido testimone di sensi ed emozioni soffocate, custodia protettrice per appropriarsi affettivamente della storia (dimensione negata nella fredda e meccanica trascrizione della vita nel libro mastro contabile del marito). Ma alla lunga risulta anche ridondante, con l’accavallarsi sempre più rapido e frequente di date, pagine e pensieri appuntati che smorzano la bellezza pittorica delle immagini, eloquenti nel loro lirismo in un tiepido e avvolgente 16mm, senza bisogno di troppe sottolineature dello stream of consciousness vergato da Abigail, nè di dotte citazioni scespiriane (il canto d’amore delle due donne imprigionate come uccelli in gabbia dorata, simili a Cordelia e Re Lear).  

La regia di Mona Fastvold misura attentamente il desiderio trattenuto e gli slanci affettivi, il calore della prossimità e il senso di abbandono, le oscillanti temperature emotive di Abigail e Tallie come stagioni diverse che si succedono e trascolorano l’una nell’altra. Affidandosi alla forza contrastante degli elementi naturali, che dal brullo paesaggio si riflettono e crepitano nella dura corazza delle protagoniste, poco a poco disciolta: il bianco freddo del rigido inverno e il tepore limpido della primavera luminosa, il buio domestico e la luce che filtra dall’esterno come promessa di salvezza (tra l’aura salvifica della figura di Tallie e il magnetismo irresistibile dei suoi lussureggianti capelli ramati). La notte e il giorno, il gelo e le fiamme, il fuoco e il ghiaccio, il silenzio immobile e il rumore assordante del vento, il turbinio della bufera che disperde Tallie e l’incendio del focolare domestico che strappa la vita di una giovane della comunità, in un sinistro presagio. 

Con misto di dolcezza, coraggio, pessimismo realista e secchezza di toni antiepici, Mona Fastvold guarda a un orizzonte in chiaroscuro nell’osteggiato percorso dell’identità femminile verso il riconoscimento e l’affermazione: il vero, insuperabile confine che resta da varcare. Se da un lato rintraccia sull’atlante geografico regalato ad Abigail (oggetto chiave) un’intima e preziosa mappa delle passioni libere e – per l’ottuso spirito del tempo – non convenzionali, dall’altro perlustra un viaggio di segno inverso, un attraversamento all’indietro – passatista (perfino per il 1856…), anti-pionieristico – della frontiera. La fuga nascosta della carovana di Tallie e Finney, per drastica decisione del marito tiranno, non è intrapresa guardando al futuro, diretta verso il progresso e la modernità, al mondo che verrà. Ma, anzi, ne rappresenta proprio la rinuncia, la negazione, l’ideologia oppressiva del patriarca che ritorna sui suoi passi, il mito sconfessato e abortito (simboleggiato anche dalla perdita prematura della figlia di Abigail) della fondazione di una civiltà edificata sull’armonia inclusiva. In un regressivo imbarbarimento atavico che riconduce la cellula coniugale a un isolamento quasi pre(i)storico, e la condizione della donna in un bruto rapimento possessivo di matrice fiabesca, con Abigail che tenta il disperato salvataggio dell’amata dall’orco della palude.

Non sembra possibile – nel 1856, ma probabilmente anche nell’oggi – uno sbocco realmente compiuto della spinta amorosa verso la libera espressione. Così, alla scrittura emozionale di Abigail, in attesa di una giusta vendetta e di un rilancio dei sogni, non resta che il potere evocativo dell’immaginazione, i fantasmi del desiderio che le rimangono a fianco e la aiutano a vivere. 

Il film è disponibile in streaming su CHILI e TIMVISION 

Questo articolo è stato scritto da:

Daniele Badella, Redattore