Io sto sempre andando a casasempre alla casa di mio padre
Novalis

“Chi è, Roberto Baggio?”: è la domanda che ne Il Divin Codino l’inviato di una Tv locale rivolge al timido fenomeno diciassettenne, quando ancora è una brillante promessa coi piedi ben piantati sui campi di provincia del Vicenza, ma già tutto il calcio che conta ne corteggia il talento cristallino. Il biopic Netflix di Letizia Lamartire prova a rispondere, ripercorrendo la gloriosa e sofferta vicenda umana e privata del fuoriclasse di Caldogno in tre atti drammatici e temporali che assomigliano alle tappe di un personale calvario: il grave infortunio dell’85 che complica l’approdo in Serie A alla Fiorentina, l’avventura sfortunata e il tragico epilogo ai Mondiali di USA ’94, la rinascita a Brescia sotto la guida dell’amato Carletto Mazzone (Martufello), subito vanificata dalla delusione per la mancata convocazione in Giappone-Corea 2002. Intercettando la parabola di un campione così ascetico, ermetico e silenzioso, sovranamente distante, per deviare dall’iconica traiettoria del rigore sbagliato di Pasadena, che lo ha consegnato all’immaginario collettivo – non solo degli sportivi – ben più dei suoi successi.

È l’eterno flash di quella sfera inspiegabilmente sparata alta al cielo – in un fuoricampo infinito e assoluto – la scena madre che continua a segnarne il vissuto, e a togliergli il sonno a distanza di anni. L’orizzonte degli eventi che contrae e dilata, accelera e rallenta il tempo del calcio al pallone inghiottito in un buco nero, modificandone il corso e la percezione tra passato e presente, che si rincorrono in palleggio nell’analogia fondamentale del film, il flashforward del predestinato. I raccordi alternati tra il piccolo Roberto che va sul dischetto, sistema il pallone, prende la rincorsa e segna frantumando i vetri dell’officina di papà, e il campione affermato che a un passo dalla gloria fallisce il tiro nella finalissima. Con le urla di gioia del bambino vittorioso – Baggio era così, faceva da sé la telecronaca del tripudio – che fanno invasione di campo sonora riversandosi sulle immagini mute dello scoramento della sconfitta, prima di sprofondare nella dissolvenza in nero che, purtroppo, non sarà mai vero oblio.

Non sta però nell’impianto visivo – attestato su una confezione standard da serial –  e nel (debole) racconto di imprese e cadute sportive, l’elemento di maggior fascino de Il Divin Codino. Anzi, nelle riprese sul campo – con l’impiego di una Betacam vintage per mimare la patina anni ’90 – sconta una piattezza televisiva che, nel restituire la poesia in movimento e gli arabeschi imprevedibili del genio di Baggio, non si distacca dal replay d’imitazione dei gesti tecnici fissati nelle celebri immagini d’archivio (un’estetica del calcio giocato ripensata fuori da format e highlights della diretta Tv è annoso problema dei film sul pallone).

Insieme all’interpretazione pensosa, monacale, in sottrazione, quasi in assenza di Andrea Arcangeli (Romulus), ciò che convince, nello script di Ludovica Rampoldi e Stefano Sardo (i due terzi della writing room di 1992 e seguiti), ispirato “alla vita e alla persona” più che alla leggenda di Baggio, è il raccoglimento ombroso e tormentato nella vulnerabilità dell’uomo (dietro il campione). Nella dimensione appartata della disciplina interiore (il superamento del vuoto, la forza di volontà del riscatto, la graduale adesione al buddhismo). Senza l’epica della celebrazione divistica ma con la mistica della resurrezione attraverso ostacoli e sofferenze, in cui le stimmate del divino sono l’umanissima incisione dei duecentoventi punti di sutura al ginocchio martirizzato.

Un percorso fisico e spirituale lungo un paradigma della coscienza che, come sostiene Stefano Piri, autore di un bel saggio sul calciatore (Roberto Baggio – Avevo solo un pensiero, 66thand2nd edizioni), è facilmente assimilabile al cammino iniziatico del viaggio dell’eroe, perseguito dal film anche nel tratteggio delle figure ancillari: l’amico di preghiera Maurizio Boldrini e il manager Vittorio Petrone come mentori e coach spirituali, il mutaforme Arrigo Sacchi – una sfinge a bordocampo – che mette in ombra e alla prova il talento, il padre Florindo (Andrea Pennacchi) come inflessibile guardiano della soglia della predestinazione, che forgia carattere e saggia la volontà con l’innesto di una false memory fatale.

Perché in fondo, Il Divin Codino è una grande parabola di riconciliazione padre-figlio: tra un padre ostico, anaffettivo, inavvicinabile, e un figliol prodigo eternamente smarrito in cerca dell’approvazione, che si danno (al)la caccia, si rincorrono a distanza per tutta la vita trovandosi infine in un abbraccio sulle note di Paradise di Bruce Springsteen. Qualcosa che vale forse più di un rigore maledetto…

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Daniele Badella, Redattore