Con Il collezionista di carte (The Card Counter in originale) Paul Schrader conferma di essere senza dubbio uno dei registi e sceneggiatori più coerenti della storia del cinema. Il film racconta la storia di William Tillich (Oscar Isaac), veterano dell’Iraq finito in prigione per aver partecipato alle violenze di Abu Ghraib. William, finalmente libero, trascorre la propria vita vagando di casinò in casinò e ottenendo piccole vincite a blackjack. Per lui le carte, a cui dedica tutta la propria esistenza, non sono un modo per vincere, ma per “passare il tempo” e provare a dimenticare gli orrori compiuti. La sua esistenza, da sempre vissuta nell’ombra, viene sconvolta quando incontra Cirk (Tye Sheridan), un giovane che è in cerca di vendetta.
I temi centrali del cinema di Schrader sono sempre stati il racconto della solitudine di personaggi abbandonati, il senso di colpa e la possibile redenzione. E’ quindi naturale collegare quest’ultima fatica a una delle sue prime sceneggiature, il riconosciuto capolavoro di Martin Scorsese Taxi Driver. Tuttavia gli anni sono passati e la sua visione del mondo è cambiata. Il regista continua il percorso intrapreso nel suo meraviglioso film precedente First Reformed, ma spinge l’acceleratore sul pessimismo, e dipinge un’America ancora più oscura, illuminata dalla luce fittizia, vuota e artificiale dei casinò, luoghi costruiti sul denaro, ma a cui non sembra più importare dei soldi, ormai relegati a mero mezzo per creare spettacolo. Questo, uno dei temi su cui è costruito il film, non ha più alcun potere sulle persone, che vengono travolte dal passato e dal fardello dei propri errori e delle proprie scelte. Un debito verso la vita che è efficacemente sottolineato attraverso la metafora più volte ripresa durante la pellicola del debito di un giocatore di poker professionista verso i propri creditori. Eppure Schrader, esattamente come in First Reformed, crede che ci sia ancora della speranza di redenzione e che tale speranza vada trovata nell’amore, anche di uno sconosciuto, raggiungibile solo dopo aver espiato i propri peccati e aver accettato il proprio passato, cosa che non tutti sono disposti a fare. Durante la pellicola non mancano frecciate all’imperialismo statunitense, che è di fatto l’origine dei problemi dei protagonisti, e alla finzione del sogno americano (la più riuscita risulta essere il mago del poker di origine ucraina che si fa chiamare Mr. USA e che viene puntualmente battezzato da uno dei personaggi con “That fucking USA”), portando in scena la personale crociata del regista contro le contraddizioni della sua nazione.
Concetti sicuramente non nuovi e già trattati dallo stesso Schrader, ma indubbiamente se la sceneggiatura fosse stata messa nelle mani di qualcun altro probabilmente avremmo ottenuto un risultato decisamente mediocre. In questa pellicola ciò che fa davvero la differenza è la messa in scena a dir poco sublime, tra piani sequenza e grandangoli estremi adottati in alcune riuscitissime sequenze horror, che crea un’atmosfera sospesa e sempre pronta ad esplodere. Gli attori sono diretti magistralmente da Schrader, capitanati da un Oscar Isaac in grande forma che lavora di sottrazione. Il suo William Tillich è un personaggio freddo, schivo, all’apparenza senza sentimenti, ma in realtà estremamente profondo. Nella sua vita ha vissuto esperienze terribili e atroci che non vuole affrontare, per cui l’unico modo per riuscire a convivere e a tenere a bada l’inferno presente dentro di lui è condurre una vita abitudinaria, in carcere prima e come piccolo giocatore d’azzardo poi. Una persona che si sente così sporca dentro da non riuscire a dormire in una camera d’albergo senza coprirla di lenzuoli, per evitare di lasciare tracce di sé stesso, per evitare di corrompere anche quel luogo. Una persona che inizialmente cerca di non instaurare rapporti umani, i quali si limitano a poche interazioni nei bar di hotel e casinò di fronte a un drink, che finisce di bere sempre per primo in modo da poter fuggire. Solo l’incontro con Cirk lo smuoverà e gli permetterà di affrontare i suoi demoni.
In conclusione Schrader confeziona un grande film, accompagnato da musiche meravigliose, in cui porta avanti la sua poetica, senza inventare nulla e proponendo una variazione sui temi che ama trattare, ma riuscendo ad ammaliare e a colpire ancora una volta, come solo un grande maestro del cinema contemporaneo riesce a fare.
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