Torna dopo undici anni lontano dal grande schermo Michelangelo Frammartino, regista milanese di origini calabresi autore di Le quattro volte. Un ritorno degno di essere presentato nel concorso principale della 78a Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia e capace di portare a casa il Premio Speciale della Giuria, conquistando il gruppo di giurati capitanati da Bong John-Ho.

Di tutto si può dire della nuova opera di Frammartino, tranne che non sia un prodotto indubbiamente originale e coraggioso. Nell’agosto del 1961, i giovani membri del Gruppo Speleologico Piemontese, già esploratori di tutte le cavità del Nord Italia, cambiano rotta e puntano al Sud, nel desiderio di esplorare altre grotte sconosciute all’uomo, immergendosi nel sottosuolo di un Meridione che tutti stanno abbandonando. Qui, nel Pollino, in Calabria, questi giovanissimi speleologi, calandosi nel buio della terra, scopriranno una delle grotte più profonde del mondo, l’Abisso di Bifurto. Il buco narra la storia della loro straordinaria impresa.

Frammartino, coadiuvato dal talento di Renato Berta alla fotografia, Giliano Carli al montaggio e Simone Paolo Oliveri al sonoro (tutti doverosamente da citare), crea un cinema esperienziale e contemplativo di rara bellezza caratterizzato da un lento incedere, ammaliandoci immediatamente con inquadrature paradisiache di tramonti ispirati alle opere del pittore Turner e catturando i suoni della natura del Pollino e dei suoi abitanti, mostrati con un piglio documentaristico e una sensibilità che ricorda Robert Bresson. Il lavoro sul sonoro effettuato da Oliveri è particolarmente emblematico, capace di catapultarci nei luoghi mostrati catturandone i rumori, ma trascurando le parole degli uomini, che non hanno significato e si perdono nell’ambiente circostante, creando una colonna sonora direttamente con la natura e privando il film di ogni altra musica. Frammartino mostra l’impresa degli speleologi con campi lunghi e lenti movimenti di macchina che esaltano la discesa verso il basso, sfruttando una grande profondità di campo. Tuttavia la vera forza della pellicola sta nel non essere pura estetica o solo mero esercizio di stile.

Il regista costruisce infatti un discorso aperto a più interpretazioni e riconducibile volendo all’eterno confronto tra uomo e natura, attraverso la figura emblematica del pastore. Egli è il primo personaggio presentato durante il film, un uomo che parla solo il linguaggio degli animali, un custode che osserva ogni giorno l’accesso all’Abisso di Bifurto, portale di accesso alla Terra e rappresentazione della purezza della sua natura interiore. Dal suo punto di osservazione uomini e mucche si confondono alla vista e all’udito, in un crogiolo di sensazioni indefinito.

Questo finché non inizia la discesa. Gli speleologi, rappresentazione involontaria del Nord industrializzato, sottolineato dalla trasmissione televisiva che riporta la costruzione avveniristica del grattacielo Pirelli di Milano a cui assiste un paesino del Pollino a inizio pellicola, entrano nell’Abisso, portale di accesso alla Terra più pura, comportando un malessere fisico nel pastore. Questa relazione a distanza, realizzata splendidamente dal montaggio parallelo di Giliano Carli, si evolve e porta a un finale quasi trascendente per il pastore, che si unisce definitivamente a ciò che custodisce, a dimostrazione di come il luogo più puro sulla Terra, nonostante le apparenze, non possa essere davvero violato dall’uomo. Concetti non nuovi, ma messi in scena con un’eleganza e un soggetto talmente particolare da non poter lasciare indifferenti.

Grazie al lavoro di tutti i membri della crew di questa pellicola, di cui possiamo solo immaginare le numerose difficoltà realizzative a causa dei luoghi inospitali in cui è stata girata (i fonici si sono a tutti gli effetti improvvisati speleologi), Frammartino crea un film unico, a suo modo innovativo, scarno nella narrazione, ma potente nelle immagini e nella messa in scena. Da vedere necessariamente al cinema.

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Luca Orusa, Redattore