L’ultimo film di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, presentato in concorso all’Ottantunesima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, è una gradevolissima tragicommedia sulla latitanza di Matteo Messina Denaro.
Sicilia, primi anni 2000. Catello Palumbo (Toni Servillo) è un uomo di mezza età da poco uscito di galera dopo una condanna per associazione mafiosa. Nel frattempo, Matteo (Elio Germano), da tutti conosciuto come Iddu, vive la sua vita da latitante nell’appartamento di Lucia (Barbara Bobulova). Disprezzato dalla sua famiglia e da tutte le persone che un tempo lo rispettavano per via del suo status di uomo d’onore, viene spinto a collaborare con la giustizia e a contattare Matteo per scoprire il suo nascondiglio.
Il duo formato dal siciliano Fabio Grassadonia e dal milanese Antonio Piazza giunge al terzo lungometraggio dopo Salvo (2013) e Sicilian Ghost Story (2017) è ovviamente una versione romanzata della vicenda del superlatitante di Cosa Nostra Matteo Messina Denaro, catturato lo scorso anno ormai malato terminale. Latitanza, affetti, relazioni, inseguimento e protezione da parte delle forze dell’ordine, aspetti tragici e grotteschi, si intrecciano in un racconto lontanissimo dalla drammaticità di altri film sul tema.
Catello, preside napoletano trapiantato in Sicilia ha abbracciato un ambiente che non ha né il coraggio né il carisma di sostenere. Una versione senza spina dorsale e senza l’aura di intoccabilità di Franco, l’imprenditore senza scrupoli che Servillo interpretava nel 2008 in Gomorra di Matteo Garrone. I suoi occhi sono quelli di quell’Italia che ha accettato l’esistenza della mafia cercando di cavalcare l’onda per finire annegato per primo. È la testa di una schiera di personaggi da commedia popolare.
Matteo dice di aver imparato tutto da suo padre, ma non il senso dell’umorismo. Il film mostra quanto ridicoli potessero essere i modi di uno dei personaggi più crudeli della storia d’Italia. È isolato dal mondo già da dieci anni ma i suoi toni e le sue parole suonano fin troppo vecchie, artefatte, appartenenti ad un mondo già finito. L’arredamento in cui è volutamente confinato ricorda il dramma borghese, si nasconde come un amante clandestino, impartisce ordini capricciosi come un aristocratico in rovina (disperandosi per il pezzo mancante di un puzzle). Non ha smesso mai di essere figlio, non può essere un padre.
Diversa castrazione subisce sua sorella Stefania (Antonia Truppo), zitella imbruttita, dal carattere intrattabile che finisce per essere sedotta dal personaggio meno furbo e desiderabile di tutta la parata.
Lucia (Barbara Bobulova), la donna che fa da perpetua alla sua latitanza, sembra l’unica persona sotto le righe per tutto il film nonostante il suo ruolo nella vicenda (di donna apparentemente onesta che protegge un boss) sia il più paradossale.
Le forze dell’ordine risultano sciocche, inaffidabili, clown di un circo tragicomico (il trucco così pesante sul volto di Fausto Russo Alesi è quasi da Fratelli Marx) che non raggiunge i suoi obiettivi, per interessi, per negligenza o forse per semplice inadeguatezza.
Questa Sicilia, questa Italia, che hanno permesso la proliferazione di un tale sistema e la presa di potere di questi personaggi, spietati ma spesso analfabeti e dalle fragilità evidentissime, non sembrano meritare di essere trattate con seriosità. Tutti i legami affettivi, politici, economici, sessuali, sarebbero quasi insignificanti se non avessero quel retrogusto di tritolo.
Non c’è dignità in questa vicenda, non c’è dignità in nessuno dei nostri personaggi. Non c’è stata dignità nella vita di Matteo Messina Denaro, nelle sue scelte di vita e di morte, nella sua latitanza.
Solo nella Storia troviamo dignità. Nella Storia anche la Sicilia, l’Italia, e l’umanità tutta trovano dignità. Accogliendo anche la violenza, la sopraffazione, il furto e la mistificazione dl bene e del male. La Storia accoglie tutto, anche la mafia, anche un crudele malato terminale con un improbabile cappotto e gli occhiali da sole.
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