Al mondo esistono soltanto due tipi di persone: i predatori e le prede. Sta a noi scegliere se voler essere un agnello o vivere da leoni. È questa la visione di Marla Grayson (Rosamund Pike), una tutrice legale che si muove nella zona grigia della legge per truffare e sfruttare il più possibile anziani che necessitano di assistenza. E non è l’unica a pensarla così, anzi. in I Care a Lot, infatti, chiunque passi su schermo evidenzia il suo lato più corrotto ed egoistico, senza mostrare alcuna esitazione nel schiacciare gli altri per raggiungere successo e benessere personale. Le loro vittime fanno solo da sfondo, relegati al loro ruolo di “mucche da mungere” e ogni categoria sociale solitamente protetta o tutelata viene completamente ribaltata, mostrando donne meschine e anziani insolenti, impedendo allo spettatore di creare un rapporto empatico con chiunque.

Mai fu più vera l’espressione di hobbesiana memoria “Homo homini lupus”.

I problemi nel suo piano perfetto arrivano quando mette gli occhi su una succosissima preda, una gallina dalle uova d’oro che, però, porterà con sé molte complicanze apparentemente insormontabili. Marla incarna appieno il sogno americano, determinata ad avere successo e a entrare a far parte del piccolo gruppo di ricchi in grado di usare i soldi come arma e nel farlo ci mostra il lato più oscuro di questo sogno: dietro alla figura di una persona intraprendente fatta da sé e che tramite le sue sole forze e abilità riesce a scalare la vetta del successo, si nasconde un essere maligno e avido disposto a far affondare chiunque pur di ottenere ciò che vuole.

Il film porta una critica tanto al capitalismo come veleno per le menti, quanto alle falle del sistema sanitario statunitense (e non solo) che consentono di rivoltare leggi e norme a proprio piacimento, permettendo di agire ingiustamente, ma lasciando la fedina penale immacolata.

Rosamund Pike, già alle prese con un ruolo subdolo e macchinatore in Gone Girl (D. Fincher 2014), ci regala uninterpretazione eccellente, riuscendo anche solo con lo la recitazione fisica a mettere in chiaro la determinazione ad affermare la propria superiorità, rendendo a volte i dialoghi tautologici e superflui.

Il potenziale della pellicola non rispecchia purtroppo il risultato finale. Il lavoro di J Blackson riesce a intrattenere e mantenere lo spettatore davanti allo schermo, ma sembra perdere la bussola con l’avanzare del film.

L’idea alla base è interessante sia come narrativa che come messaggio. Guardando i primi minuti ci si aspetta una lotta più psicologica, con la protagonista che cerca ogni cavillo legale per assicurarsi la vittoria in un gioco di maschere. Marla Grayson, infatti, mostra fin da subito come dietro a tutti quei sorrisi quasi plastici e i grandi discorsi per il benessere del cliente, si nasconde una quasi totale assenza di moralità. Il tribunale è il suo palcoscenico e campo di battaglia, dove convincere il giudice e manovrarlo a suo piacimento, a differenza del principale antagonista che vede il suo punto di forza nell’aggressività e illegalità. Con il susseguirsi degli eventi, però, lo scontro vede abbandonare le aule del tribunale per trasformarsi in un film d’azione, con tanto di esplosioni e rapimenti al limite del possibile, dove due semplici tutrici legali mettono in seria difficoltà killer professionisti della mafia russa.

Oltre alla dubbia credibilità che due persone, per quanto determinate, riescano a scontrarsi a viso aperto contro una criminalità organizzata, questo cambio di rotta trascura uno dei punti di forza potenziali del film: la critica all’inefficienza del sistema giudiziario, in particolar modo nella gestione della sanità, che oltre a non tutelare il più debole, gli impedisce di liberarsi dalla morsa del carnefice, in quanto sulla carta non sono stati commessi illeciti. Questo punto focale viene sostituito dalla ricerca di vendetta e da una sfida personale, abbandonando la manipolazione delle leggi e lasciando spazio all’illegalità pura e semplice.

Il tentativo di recupero nell’epilogo non è sufficiente a nascondere come questo film non abbia le idee chiare del genere a cui appartiene e non riesce a risollevare pienamente le sorti della pellicola.

Il film in sostanza intrattiene, con una buona tecnica registica e una grande interpretazione dei ruoli principali, ma lascia un po’ di amaro in bocca per la confusione narrativa che stona nel secondo atto e una mancata possibilità di portare una critica sociale non solo accennata, ma ben approfondita.

Questo articolo è stato scritto da:

Alessandro Deppieri, Collaboratore