La nuova serie high fantasy targata HBO, tre anni dopo l’assai discussa stagione finale di Game of thrones, dopo una partenza incerta diventa ciò che la serie madre si era dimenticata di essere: una storia di grandi trasformazioni e lotte politiche.

Così come la saga letteraria delle Cronache del Ghiaccio e del Fuoco (A Song of Ice and Fire, iniziata nel 1996 e non ncora conclusa) di George R.R. Martin ha appassionato e continua ad appassionare i lettori di tutto il mondo in trepidante attesa per i capitoli finali, il suo adattamento televisivo Il Trono di Spade (Game of Thrones, 2011-2019) ha tenuto incollati allo schermo milioni di spettatori. Un’audience che quasi nella sua interezza ha poi constatato l’evidente declino dello show fino ad un finale certamente zoppicante nel maggio 2019. La gestione apparentemente incerta degli annunci e degli annullamenti per i nuovi progetti televisivi ambientati a Westeros e dintorni lasciava presagire nubi di tempesta per House of the Dragon, adattamento del romanzo prequel Fire and Blood, pubblicato nel 2018. Fortunatamente non è andata così.

176 anni prima della ribellione contro i Targaryen, il re Viserys I governa i Sette Regni in un periodo relativamente pacifico. La mancanza di un erede maschio fa sì che la principessa Rhaenyra sembri destinata al trono, ma il secondo matrimonio del padre con la giovane Alicent Hightower, amica intima di Rhaenyra, rischia di mettere in discussione la sua pretesa al trono. In piu il principe Daemon, fratello di Viserys, non sembra intenzionato a restare con le mani in mano.

Chi nel 2011 era rimasto sconvolto dalla magnifica e terrorizzante (per quanto low budget) scena iniziale di Game of Thrones, probabilmente si sarà fatto una grassa risata vedendo l’inizio della prima puntata di House of the Dragon. Dove c’erano tre cavalieri sconosciuti, vestiti interamente di nero, che venivano macellati in mezzo ad una foresta innevata da creature mostruose, qui abbiamo una voce fuoricampo che ci narra in stile documentario storico la bagarre dinastica di un manipolo di discendenti di un re morente, tutti con quei capelli bianchi come l’avorio che abbiamo iniziato ad associare ad un solo nome: Targaryen. Non è certo il più elegante dei biglietti da visita, ma fortunatamente è uno dei pochi scivoloni di una prima stagione che migliora episodio dopo episodio.

Al netto di qualche imprecisione e qualche piccola sciatteria nei dialoghi delle prime puntate (che però non infastidiranno troppo chi non è appassionato incallito del mondo creato da Martin), la serie recupera quella solennità, quell’austerità e quell’eleganza, anche nelle scene sulla carta più violente o triviali, che Game of Thrones nella sua seconda metà aveva quasi completamente perso.

Ed è innegabile la necessità di parlare della serie madre (o per meglio dire, pronipote) per parlare di House of the Dragon. L’impronta registica non è eccessivamente differente e la scrittura ricorda davvero quella dei primi episodi del 2011, ma il soggetto in questo caso è la messa in scena delle prime crepe di una dinastia che fino ad allora era sembrata più sovrana che divina e di cui abbiamo già visto la distruzione.

Qui il regno è ancora compatto, ma questo non impedisce alla macchina da presa e agli sceneggiatori di mostrarci una grande pluralità di luoghi e personaggi, ognuno con il suo punto di vista. A differenza della serie madre tuttavia si converge sempre verso il centro, verso Approdo del Re, la Fortezza Rossa e il Trono, qui mostrato nella sua magnificenza di tutte le 300 spade. Un fulcro radiante, di cui abbiamo già visto i frantumi.

La volontà di non discostarsi troppo da Game of Thrones si nota anche dalla scelta, forse un po’ pigra e timida, di riproporre la sua iconica sigla. Il tema musicale non è nemmeno riarrangiato e il visual concept è leggermente diverso e meno immediato e decifrabile. Tutto questo ha il sapore più della sudditanza che dell’omaggio.

Grande nota di merito per la recitazione, dove si fatica davvero a trovare falle, ma d’altronde anche la serie madre era stata impeccabile nel casting. Certo, mancava un nome di grido come quello di Matt Smith (con buona pace di Peter Dinklage e Sean Bean, nomi certamente noti ma non propriamente superstar prima della serie). Il suo Daemon Targaryen vuole certamente essere il mattatore assoluto della serie. Un crepuscolare Paddy Considine e un apparentemente pacato Rhys Ifans sono perfetti nei panni del re Viserys e del Primo Cavaliere Otto Hightower, ma la punta di diamante si trova nelle due protagoniste, nei personaggi di Rhaenyra Targaryen e Alicent Hightower. Prima principesse, poi regine madri e vere stelle polarizzanti della narrazione. Il cambio di attrice per le nostre eroine a metà della stagione è in entrambi i casi riuscitissimo. Se Olivia Cooke nella versione adulta di Alicent è agevolata oltre che dal suo talento anche dall’impressionante somiglianza con la “sé stessa giovane” Emily Carey, Emma d’Arcy come Rhaenyra riesce a tratti a dare continuità alla singolarissima mimica di Milly Alcock, nonostante una grande diversità anatomica.

Piccola postilla leggermente imbarazzante per i personaggi di Casa Velaryon, con capigliature sì caratteristiche (e anche funzionali alla narrazione), ma decisamente fuori contesto. In più, un non necessario blackwashing per loro e altri personaggi era assolutamente evitabile, in una serie ambientata in un mondo vastissimo con una miriade di popolazioni diverse. Non serviva una forzatura del genere e la rappresentazione della diversità avrebbe potuto trovare molto facilmente il suo spazio in maniera più efficace. Infine Ewan Mitchell nei panni di un personaggio molto interessante come Aemond Targaryen risulta un po’ troppo macchiettistico. Un villain troppo da fumetto, che spinge lo spettatore sul finale di stagione a vedere il suo schieramento, quello di sua madre Alicent e dei Verdi come “i cattivi” rispetto a Rhaenyra e i suoi Neri. Ma magari lo spettore sarà nuovamente accompagnato a comprendere col passare del tempo le scelte dei personaggi che inizialmente detestava

Con questa speranza, attendiamo fiduciosi, l’esplosione definitiva della Danza dei Draghi

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Nicolò Cretaro, Redattore