All’inizio di House of Gucci, ventisettesimo film per il cinema dell’ottantaquattrenne Ridley Scott, vediamo la giovane Patrizia Reggiani (Lady Gaga), figlia adottiva di un piccolo imprenditore del settore dei trasporti via terra, giungere all’azienda paterna. Vestita di tutto punto, percorre come in una sfilata di moda alcuni metri dalla sua automobile agli uffici dove lavora, sotto gli avidi sguardi di un branco di camionisti. È una bella introduzione per l’ambiguo personaggio della futura vedova nera che, in bilico tra sfrenata ambizione economica e travolgente sentimento narcisista, nel 1978 conosce a una festa il giovane Maurizio Gucci (Adam Driver), rampollo della celebre famiglia di imprenditori di moda fiorentini. In breve tempo, la vitalità e risolutezza di Patrizia conquistano l’impacciato Maurizio che, contro la volontà del padre Rodolfo (Jeremy Irons), la sposa. È solo l’inizio di una storia d’amore che, a poco a poco, volgerà in tragedia e si legherà a doppio filo al crollo della dinastia Gucci, segnato dalle vicende tragicomiche dell’esuberante zio Aldo (Al Pacino) e di suo figlio Paolo (Jared Leto), e alla perdita del controllo dell’azienda di famiglia, assediata da acquirenti esteri desiderosi di mettere le mani sul marchio di alta moda più celebre di sempre.

Basato su un libro di Sara Gay Forden e sceneggiato da Becky Johnston e Roberto Bentivegna (il cui copione si prende molte libertà rispetto agli eventi realmente accaduti), il film di Scott è un ampio affresco famigliare che, fondendo i toni del melodramma a tinte forti con un sublime (cattivo?) gusto per l’eccesso e la caricatura, parte come una sorta di opera buffa che parla di ricchi con problemi da ricchi. E nella prima parte della pellicola tutto questo funziona molto bene. La seduzione di Maurizio da parte di Patrizia è sviluppata con dovizia di dettagli e non è mai chiaro se e quando la donna sia mossa da un reale interesse amoroso piuttosto che da una gelida brama di elevazione sociale. I duetti tra Lady Gaga e Adam Driver sono deliziosi e anche la figura dell’austero e raffinato Rodolfo Gucci, interpretato da un bravissimo Irons in versione vampiresca, regala al film alcuni tra i suoi momenti più alti. Allo stesso modo, sono molto forti l’introduzione e l’arco narrativo dei personaggi di Aldo e Paolo Gucci. Il primo è il patriarca della famiglia, nonché colui che, su spinta di Patrizia, introduce Maurizio all’attività della Gucci. Al Pacino gli infonde una debordante vitalità italica che, a poco a poco, comincia a scemare con il sopraggiungere dei guai finanziari e la perdita del controllo sull’azienda: quello di Aldo è un destino di consunzione e sconfitta, poiché egli rappresenta l’ingrigirsi di un sogno dinastico che proprio lui, colto da impeti mitopoietici, amava far risalire addirittura ad antenati pellai operanti nel Medioevo (mentre è noto che l’attività dei Gucci nel settore sia iniziata solo nel 1921). Paolo, al contrario, è l’incarnazione della mediocrità, il segno dell’infecondità irreparabile di una stirpe sull’orlo del baratro, uno stilista mancato abitato da uno spirito creativo che partorisce solo aborti: Jared Leto – che nel film cammina quasi danzando e parla quasi cantando, come un cantante lirico castrato desideroso di gridare al mondo la sua esistenza – ne fa il piagnucolante buffone di una corte in declino. Tutto questo è messo in scena da Scott con la solita perizia tecnica (fotografia, costumi e scenografie sono da mille e una notte) e un gusto per il divertissement che si rivela soprattutto nelle sequenze in cui la natura buffa e operistica del film si fa più esplicita: si pensi in particolare alla godereccia scopata in ufficio tra Patrizia e Maurizio, con in sottofondo Libiamo ne’ lieti calici da La Traviata (per poi passare direttamente al solenne matrimonio allietato da Faith di George Michael), e alla fallimentare sfilata di Paolo, in cui Jared Leto pare sospingere le modelle in passerella come rapito dall’impeto della mozartiana aria Der Hölle Rache, tratta dal Flauto Magico. Tutti questi elementi danno vita a una prima parte di film molto efficace, coinvolgente e divertente, in cui le varie linee narrative, legate ai vari personaggi e al destino dell’azienda, trovano il giusto spazio e uno sviluppo minuzioso. 

Non si può, purtroppo, dire lo stesso della seconda parte della pellicola. Laddove infatti nella prima metà le componenti sono ben bilanciate e il ritmo è quello lento e arioso delle grandi saghe famigliari, nella seconda il film si ritrova a dover fare i conti con moltissime vicende ancora da narrare e linee di racconto da chiudere. Questo fa sì che parte delle buone basi poste in precedenza finisca per essere sperperata in risoluzioni frettolose e non all’altezza delle premesse. A soffrirne maggiormente è proprio la linea narrativa riguardante il rapporto tra Patrizia e Maurizio: la separazione dei due coniugi è liquidata in un paio di sequenze di tensione domestica; il ruolo di Paola Franchi, nuova fiamma del rampollo Gucci, è marginale; e soprattutto spazio eccessivamente ridotto è dedicato a spiegare come Patrizia arrivi a sviluppare il desiderio omicida nei confronti del marito. La frettolosità con cui tutte queste vicende vengono sviluppate fa sì che molti eventi appaiano quasi repentini, laddove alla loro base vi sono decisioni e consapevolezze maturate nel tempo (non aiuta il fatto che Pina Auriemma – amica e confidente di Patrizia, qui interpretata da Salma Hayek e rappresentata come una bizzarra cartomante – sia relegata a un ruolo marginale, laddove tutte le cronache ne sottolineano la centralità negli sviluppi drammatici della vicenda). Il film avrebbe probabilmente necessitato di un minutaggio ancora maggiore rispetto ai 157’ del cut cinematografico, per entrare in profondità nelle ragioni delle svolte narrative della seconda parte: in generale, vi è la netta sensazione che vi siano stati dei tagli in fase di montaggio, anche perché il personaggio di Patrizia, pressoché onnipresente nella prima parte, lo è molto meno nella seconda. Altri segmenti narrativi, tuttavia, trovano chiusure più felici: Aldo e Paolo vedono compiersi in maniera abbastanza convincente il loro rovinoso destino e il passaggio della Gucci da azienda famigliare a sussidiaria di grandi gruppi internazionali è raccontato in maniera piuttosto dettagliata, come anche l’affermazione della direzione artistica di Tom Ford che, con le sue collezioni sfavillanti e trasgressive, abbatte la sacralità del marchio, rendendolo pop: sono ormai lontani i tempi in cui l’anziano Rodolfo affermava che i capi di Gucci fossero degni di musei più che di centri commerciali. 

House of Gucci, nel complesso, è un’occasione sfruttata a metà: pone delle ottime premesse che non giungono a una conclusione all’altezza. Non è tuttavia, come molti hanno scritto, un film che si accontenti della mediocrità: è anzi una pellicola non priva di momenti esaltanti (specie nella prima parte) e di scelte di messa in scena forti e coraggiose. Non è Tutti i soldi del mondo (2017), per far riferimento a un’altra pellicola di ambientazione italiana diretta da Scott: è un film con ambizioni ed esiti di tutt’altro livello, che si prende i suoi rischi, pur mancando di una sceneggiatura in grado di risolvere in maniera convincente il denso magma narrativo proposto dalla prima parte della pellicola. Ottimo, comunque, l’intero cast di attori: e anche qui non mancano le scelte coraggiose (e rischiose), visto che in particolare la debordante performance di Jared Leto ha diviso e continuerà a dividere pubblico e critica benché, a parere di chi scrive, sia perfettamente organica al personaggio che deve animare. Lady Gaga, infine, se la giocherà fino all’ultimo agli Oscar e merita le acclamazioni ricevute: riesce a dar vita all’ennesima donna forte del cinema di Ridley Scott. Dopo le indomite Thelma e Louise, la leggendaria Ripley e, più recentemente, la determinata Lady Marguerite de Carrouges di The Last Duel, la Patrizia Reggiani di Lady Gaga è una donna volubile e inarrestabile, pronta a tutto pur di coronare il proprio totalizzante desiderio di ricchezza e potere, coerente fino alla fine nel non voler rinunciare, neanche di fronte alla condanna, al nome Gucci e allo status che esso le garantisce.

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Jacopo Barbero, Vicedirettore