Nella sperimentazione di genere, il cinema italiano non è di certo al passo con altri paesi ma risulta innegabile come negli anni la nostra penisola sia stata capace di scrollarsi di dosso la nomea di produttrice dei “soliti film tutti uguali”. Il genere sicuramente più florido di nuovi prodotti è l’horror, con diversi nuovi nomi capaci di farsi strada attraverso opere prime o seconde pellicole – già solo in questi ultimi anni abbiamo avuto come esempio l’opera prima di Ambra Principato Hai mai avuto paura, Pantafa di Emanuele Scaringi o il ritorno di Paolo Strippoli con Piove – che non sempre hanno saputo cogliere pienamente nel segno, portando in sala prodotti di certo non privi di difetti ma che dimostrano una volontà di mettersi in gioco di molti nuovi nomi.

Tra questi si inserisce anche Andrea Niada, italiano cresciuto a Londra e che già si era fatto notare da una folta schiera di appassionati grazie al suo cortometraggio Home Education, distribuito in numerosi festival nel 2016. A sette anni di distanza, lo stesso Niada riprende il soggetto del suo corto e lo trasforma in un lungometraggio che vede nel cast Kate Reed, Julia Ormond e Rocco Fasano e con alle spalle il supporto di Warner Bros.

Un incantevole inferno

In un’isolata casa nei boschi calabresi vivono Carol e la figlia Rachel, giovane ragazza molto introversa che non frequenta la scuola e la cui educazione dipende esclusivamente dalla madre. Assieme a loro vive anche il padre Philip, apparentemente in uno stato catatonico – forse morto? – immobile sdraiato in un letto in soffitta. Le due però non sembrano preoccupate in quanto l’uomo parrebbe essere in procinto di “tornare”, l’importante è non smettere mai di dubitare. Tutti questi elementi erano già presenti nel cortometraggio, che nella fugace durata di 26 minuti costruiva un’ottima atmosfera ricca d’inquietudine e di ansia soprattutto grazie alle ottime performance delle attrici protagoniste. Nella decisione di “ampliare” il racconto, si riempiono gli spazi con un marcato approfondimento psicologico sia della giovane protagonista che della madre, approfondendo il loro stile di vita solitario, lo studio ed il rapporto che sempre più si incrina tra le protagoniste con il procedere della vicenda in cui gioca un ruolo centrale l’inedito Dan, giovane ragazzo che sembra manifestare interesse per Rachel rischiando di rompere la campana di vetro sotto la quale la giovane sembra essere costretta a vivere.

Julia Ormond è Carol, la madre ed insegnante di Carol

Ciò che senza dubbio il film manifesta in modo migliore rispetto al cortometraggio sono gli ambienti, qui spiccatamente rurali e naturali, vivi e colorati ma al tempo stesso pieni di morte soprattutto a causa delle misteriose componenti magiche che sembrano ruotare attorno ai personaggi. Misteriosi visioni ed inquietanti suoni permeano infatti la vita di Rachel, sensibile come il padre ad un “mondo di là” popolato di oscurità e decadenza. Se all’apparenza si può trovare un non troppo velato rimando al Sottosopra di Stranger Things, l’intelligenza di Niada sta proprio nel rendere questo posto un’idea prima che una realtà vera e propria che dai personaggi si trasferisce allo spettatore e che proprio come i protagonisti non può far altro che aspettare qualche segnale, esso sia un misterioso fischio simile ad un grido o qualche sequenza onirica ricca di spunti visivi.

Angoscia, non terrore

Se la regia si dimostra particolarmente calzante, aiutata da un ottimo montaggio e da un sopraffino comparto sonoro, ciò che si dimostra come vero e proprio “tallone d’Achille” è la sceneggiatura: il dilungarsi delle vicende finisce infatti per riempire il racconto di tempi morti e di azioni ripetute, dimostrando l’incapacità di trovare delle alternative interessanti alle idee già messe in scena nel cortometraggio. Il personaggio stesso di Dan si percepisce come un’aggiunta utile nei primi momenti ad approfondire l’elemento soprannaturale ma che finisce per arenarsi presto in un guscio vuoto senza capo né coda, a cui la recitazione di Rocco Fasano certo non aiuta quasi da contraltare alle invece ottime interpretazioni di Julia Ormond ma soprattutto della giovanissima Kate Reed.

La sorprendente Lydia Page nei panni di Rachel

Altro elemento che può destare più di qualche problematicità all’interno del racconto è il suo obiettivo finale. Quello che vuole fare Niada non è infatti costruire un horror che terrorizzi o spaventi nel senso più classico del termine – e ciò lo dimostra la totale assenza di jumpscare – quanto piuttosto di raccontare una storia di abusi e di rapporti tossici tra una madre ed una figlia in un nucleo famigliare permeato al tempo stesso da credenze magiche: queste ultime servono infatti soltanto ad acuire il senso di disagio, non a generarlo. Proprio su questo elemento, senza eccedere negli spoiler, la pellicola arriva quasi al punto di far dubitare di ciò che lo spettatore sta vedendo, dando credito alle dicerie che additano la protagonista semplicemente come una ragazza disturbata che necessita soltanto appropriate cure mediche.

L’ultima parola spetta quindi al pubblico: se ciò che cerca è infatti un horror capace di sconvolgere, spaventarlo e non farlo dormire la notte grazie a mostri spaventosi o suoni terrificanti, non potrà allora fare a meno di rimanere deluso davanti a questo film; se invece si è disposti a lasciarsi trasportare in un racconto lento ed angosciante ricco di spunti visivi e tematiche interessanti – ed a passare oltre alcuni evidenti difetti soprattutto di ritmo – allora quest’opera prima di Andrea Niada merita senz’altro almeno una visione.

Mattia Bianconi
Mattia Bianconi,
Redattore.