“Ogni uomo incontra ciò che vuole evitare” 

(dall’incipit di Holy Spider)

LA MORSA DEL RAGNO

In concorso al 75° Festival di Cannes (dove la protagonista Zahra Amir Ebrahimi ha ottenuto il premio alla migliore attrice), raggiunge finalmente le sale italiane Holy Spider: il film di Ali Abbasi (regista iraniano naturalizzato danese, autore del suggestivo melodramma dagli echi folk-horror Border – Creature di confine, 2018) che rilegge la reale vicenda del serial killer Saeed Hanaei (denominato Spider) nelle forme fosche e angosciose del thriller urbano e politico, nel groviglio contorto e accidentato della detection story dell’eroina sola contro tutti, nelle psicotiche piaghe immedicabili di un dramma esistenziale di rovinosa ascesi spirituale verso il Male. Qui interpretato da un impressionante e ossessivo Mehdi Bajestani, Hanaei fu il feroce ma lucidissimo e misticheggiante carnefice che nell’Iran dei primi anni Duemila avviò una dissennata crociata personale contro le prostitute della sua città, arrivando a strangolare barbaramente sedici donne, per “ripulire” le strade da coloro che considerava corrotte e peccaminose tentatrici che, a suo inappellabile giudizio, traviavano i probi cittadini dalla sacra devozione a Dio e dal culto dell’inflessibile Legge dell’Islam. 

Ci troviamo a Mashhad – il film è stato in realtà girato ad Amman, in Giordania, per evitare noie e ingerenze dai vertici iraniani -, capoluogo a circa novecento chilometri da Teheran, nonché importante sito di pellegrinaggio religioso in cui è ubicato il santuario dell’Imām Reżā (una delle guide spirituali dell’Islam sciita), nel quale vediamo lo stesso Saaed recarsi in visita, per ricevere quasi un’ufficiale investitura divina per la missione di san(t)ificazione morale di cui si è autoincaricato. In più, come scopriamo a poco a poco, l’illogico e folle fondamentalismo dell’uomo è ulteriormente esacerbato da una post-traumatica sindrome del reduce (è un ex militare che ha combattuto nell’esercito) in cerca di una Causa per cui vivere e combattere, assalito dalla spaventosa voragine di vuoto e assenza di scopi che lo ha cinto al rientro nell’insopportabile anonimato della vita civile e familiare, cui non è riuscito a riadattarsi. Mentre il numero delle vittime cresce vertiginosamente, nell’indifferenza sdegnosa dei poteri di Stato e nel lassismo incompetente delle unità investigative, la tenace reporter Rahimi (l’intensa e risoluta Zahra Amir Ebrahimi), prova tra mille ostacoli e resistenze a scovare l’assassino. 

IL REGIME DELL’INVISIBILITÀ

Tra l’iconografia stilistica del genere e l’etica del cinema civile, la regia di Abbasi si tiene opportunamente alla larga da timidi equilibri documentaristici e dal ristagno nei (pur nobili) contenuti a tesi che spesso viziano molto cinema impegnato, spingendo forte sul pedale della tensione, del movimento cinematico e della sfida delle psicologie a distanza come nella miglior tradizione del cinema di caccia all’uomo (che in questo caso si estende alla cattura e alla messa alla sbarra di un oppressivo sistema di dominio e controllo patriarcale nella sua totalità). Senza arretrare davanti alle scene forti in cui la violenza erompe in primo piano o, in modo ancor più aggressivo e disturbante, viene evocata e ricreata a favor di telecamera in impensabili gesti emulativi: l’imitazione certosina della tecnica di omicidio, messa in atto dal figlio Alì come in un freddo gioco domestico con la sorellina, avvolta nel tappeto come un cadavere, è di un pessimismo nichilista e generazionale che gela il sangue, e supera di gran lunga l’inquietante precisione del re-enactement postumo sul luogo del delitto in Roubaix, une lumière (2019) di Arnaud Desplechin. 

Non c’è però alcuna ricerca gratuita del morboso true crime di effetti sensazionalistici studiati a tavolino sulla pelle dello spettatore. Riflettere, come fa Abbasi, sui modi di esposizione e sul grado di rappresentabilità della violenza, e sulla questione del mostrabile (cosa si può far vedere e cosa no? Fino a che punto occorre far vedere? Come far saltare le rigide maglie censorie di cosa è lecito mostrare?) diventa semplicemente un gesto teorico e politico essenziale e rivoluzionario, l’unico possibile, dentro una società chiusa e tirannica che è innanzitutto un regime di rigido controllo sulla visibilità: l’occultamento spersonalizzante delle donne condannate a mascherarsi sotto il velo che ne annulla l’identità, il confinamento silenzioso e fuori campo, nelle zone d’ombra, lontano da occhi vigili e indiscreti, di una capillare e sistematica violenza di Stato cha cancella ogni dissenso.  

LE NOTTI DEL GIUDIZIO

Abbasi alterna ritmicamente e specularmente i punti di vista, tra la meticolosa, ostinata investigazione in solitaria di Rahimi, e la gravosa e tormentata vita privata del Ragno, sempre più affannosamente dipendente dall’allucinata catarsi dell’omicidio. Nervosamente scissa tra l’umile e precaria quotidianità di onesto muratore, marito e padre amorevole (ma vittima di incontrollabili scatti di rabbia come spie di un disagio insanabile), e le maniacali sortite in motociclo a caccia di prede come un sonnambulo in circolo dentro un incubo visionario, preludio alle rituali esecuzioni officiate con la glaciale impassibilità di un burocratico boia o un invasato giudice dei destini umani sottomessi alla pena capitale (in questo, simile al Tony Manero (2008) di Pablo Larraín, Saeed è una disumana e delirante personificazione di uno Stato serial killer come l’Iran, che ad oggi detiene il record mondiale di condanne a morte e prigionieri giustiziati).

Abbasi pedina e immerge i vagabondaggi di Saaed in un nero notturno di marginalità derelitte e vite residuali allo sbando nella solitudine della periferia (quasi tutte le ragazze di strada sono smunte figure catatoniche, abbandonate a se stesse e schiave dell’oppio), squarciato da lampeggianti aloni verdi e rossi che avvolgono le inquadrature e inondano le disfatte strade cittadine, spettri cromatici che rimandano immediatamente alla dimensione di eruzione del male sotterraneo e di sporcizia infernale di un thriller settantesco alla Taxi Driver (1976) trasferito nelle penombre della realtà iraniana. La stessa lucida follia terroristica di Saeed, nel nome di un disegno di salvezza più grande, lo avvicina infatti sensibilmente al radicalismo sovversivo (e però intimamente reazionario) e alla scissione interiore di un profeta-giustiziere alla Travis Bickle. Con lo stesso anelito alla purificazione di una civiltà percepita come irrimediabilmente corrotta e dunque da ricondurre sui binari della rettitudine mediante un biblico spargimento di sangue, un atto di “giustizia” che Saeed abbraccia da subito in prima persona, senza attendere – anzi provocandola – la venuta di un “un altro diluvio universale” che disinfesti la degenerazione dei marciapiedi. 

ALZARE IL VELO (SULLA RAPPRESENTAZIONE)

Abbasi sa insomma cosa vuole dire e sa come dirlo. Dimostrando, pur dentro una storia un filo troppo lineare e programmatica, di aver fatto sua la lezione tematica, emotiva e stilistica del thriller di matrice classica, sapendola filtrare con perizia dentro le complesse dinamiche e il particolare scontro tra civiltà da sempre in atto nelle contrapposizioni divisive che insanguinano il suo Paese d’origine. Pur rivelando immediatamente l’identità del killer, manovra bene la suspense di un canovaccio cupo e crudo, che nella prima parte si appoggia con forza ed evidenza ben riconoscibili a figure tipiche e rotte canoniche del genere. Senza tuttavia compromettere – anzi, amplificandolo al massimo grado – l’impeto politico dispiegato nel descrivere senza fronzoli le peculiarità sociali e antropologiche del contesto iraniano sull’orlo del collasso, su cui si sposta prepotentemente il focus nella seconda parte: tra gli step processuali del dead man walking come ascetico martire, ugualmente mostro ed eroe nazionale, e l’imparziale e impietosa analisi dei suoi effetti collaterali sull’immaginario pubblico, nel cortocircuito impazzito di media, popolo e organi di Stato che ne cannibalizzano la vicenda. 

Un mosaico ambientale nel quale le profonde storture ideologiche e mentali, gli squilibri di genere materiali e identitari, l’impiego chirurgico di una violenza irrazionale benedetta dall’alto di un potere millenario, astratto e pressoché invisibile, non sono fattori esogeni di devianza isolata ma appartengono al corpo interno della Nazione, al tessuto connettivo di una popolazione irreggimentata nei soffocanti comandamenti di una persecutoria e onnipresente polizia morale, introiettati nell’inconscio collettivo come un’aberrante preghiera per una buona e giusta condotta di vita. È per questa ragione che viene il sospetto che la condanna di Saeed, lungi dal valere come sentenza riparatrice, sia al contrario la conferma del naturale diritto di veto assoluto sulla vita e sulla morte – lo stesso che Saeed crede di amministrare impunemente in nome di Dio – di un potere che si autoassolve, facendo sparire per sempre dal dibattito pubblico – alla vigilia di importanti elezioni – uno scomodo corpo del reato, uno strumento di morte che rende pericolosamente troppo scoperta e manifesta l’anomalia normalizzata su cui si regge un intero Sistema di sopraffazione.  

La congiuntura temporale e storico-politica che corre parallela agli eventi è non a caso quella che vedette il sostanziale fallimento delle politiche riformiste e modernizzatrici, dei tentativi di apertura al “dialogo fra le culture” dell’ex presidente Khātami, una spinta abortita al cambiamento dal basso che si ridesta oggi alla luce della recente ondata di proteste e indignazione seguita al caso della morte della giovane Mahsa Amiri (nonché agli arresti di illustri personalità artistiche come Jafar Panahi e Mohammad Rasoulof). 

Nella cronaca del contemporaneo riflessa nel passato recente, per mezzo di una più che mai attuale storia (vera) di corpi brutalizzati da un Potere assoluto che resiste ad ogni tentativo di sua neutralizzazione, Holy Spider tende un ponte traballante che fa da duro bilancio e termometro sociale di un Paese che sembra impantanato in un arcaico immobilismo senza uscita, eppure continua strenuamente a lottare per veder riconosciuta la sua libertà.  

Questo articolo è stato scritto da:

Daniele Badella, Redattore