Il nuovo film di Richard Linklater, presentato fuori concorso all’80esima Mostra del Cinema di Venezia, riconferma senza riserve la grandezza del suo autore. Il regista, che nella sua carriera ha mostrato una poliedricità tale da mettere in scena magnifiche storie d’amore, commedie ed esperimenti in rotoscope con la medesima bravura, torna ora sul grande schermo con Hitman.
La storia è la vicenda reale di Gary Johnson (sceneggiatura basata sull’articolo della rivista Texas Monthly “Hit Man” di Skip Hollandsworth) un docente universitario di filosofia e psicologia che lavora anche part time come tecnico per la polizia. Un giorno però si trova costretto a sostituire un collega che ricopre un ruolo particolare all’interno delle investigazioni: egli si fingeva un sicario per raccogliere testimonianze da parte dei criminali e riuscire a condannarli. Dopo iniziali esitazioni Gary accetta, e progressivamente sviluppa grande precisione nell’impersonare uomini completamente diversi da sé. Inizia anzi a provare divertimento in questo pericoloso distacco dalla sua monotona benché amata routine.
Il racconto si articola sulla netta separazione tra le identità di volta in volta assunte, e su una in particolare, Ron: un sicario affascinante e vigoroso, ingaggiato da una donna che desiderava liberarsi dal marito abusivo. Successivi sviluppi e imprevisti portano Gary/Ron a barcamenarsi, a volte con maestria e a volte con difficoltà, tra le sue due “facce”, mentre nelle sue lezioni in classe riflette con i suoi studenti sulle implicazioni del concetto di Io. Vi si accompagna un altro aspetto fondamentale nel film, la fisicità dei protagonisti. Caratteristica particolarmente curata, esaspera i cambiamenti messi in atto e sottolinea contrasti fortemente ironici. È possibile scorgervi anche una valenza metacinematografica sulla base delle azioni essenziali che Gary compie: egli diventa qualcun altro, come un attore concentrato sulla propria recitazione; concetto, quest’ultimo, fortemente legato anche al tema dell’identità personale.
È possibile mutare? Se sì, in che misura? E quando vi sono le condizioni adeguate affinché ciò avvenga? Sotto la facciata comica Linklater (che ha anche sceneggiato il film, insieme a Powell) ci trasmette un messaggio importante da custodire. Cambiare è possibile, e diventare la miglior versione di noi stessi è un traguardo che con l’adeguata predisposizione mentale può raggiungere chiunque. Gary lo scopre sul campo, senza mai davvero abbandonare il suo vecchio sé o sostituirlo con un completo sconosciuto: viene solo a conoscenza di un lato della sua identità che lui, consapevolmente, fa emergere e col tempo stabilizza.
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