Quante maschere indossiamo per poter sopravvivere? Qual è quella che ci assomiglia di più? Quanti frammenti raccolgono la nostra reale essenza?
Richard Linklater torna al cinema con Hit man – Killer per caso, una commedia che tocca diversi generi e ci pone di fronte a questi e altri interrogativi con una leggerezza mai superficiale.
Il film, distribuito da BIM e presentato in anteprima alla 80ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, è liberamente ispirato a una storia vera, raccontata nel 2001 in un articolo del giornalista Skip Hollandsworth (già collaboratore del regista in Bernie) sul Texas Monthly.
Gary Johnson (Glen Powell) insegna filosofia e psicologia al college e nel tempo libero collabora con alcuni membri della polizia (Retta e Austin Amelio) come consulente informatico. Costretto a sostituire un agente sotto copertura, si troverà a impersonare un sicario e scoprirà la sua effettiva natura, acquisendo delle consapevolezze impreviste e inaspettate.
Gary è una persona comune, un viso da dimenticare, chiuso nella gabbia della routine e della solitudine. Non ammette trasgressioni e tutto il suo mondo appare anonimo, perfino il suo nome risulta banale. Quando comincia a fingersi qualcun altro, diviene consapevole dei segmenti che compongono la sua personalità ed emerge una parte di lui probabilmente rimasta sopita troppo a lungo.
Apparentemente l’equilibrio tra Es e Super-Io inizia a vacillare, in realtà i travestimenti e i personaggi da interpretare delineano una nuova forma di armonia nella sua vita.
Linklater scrive insieme a Glen Powell una sceneggiatura brillante, mettendo in scena un racconto dinamico, in continua evoluzione. Il trasformismo del protagonista si riflette direttamente sulla narrazione: il regista si muove dal romanticismo all’azione, passando per il thriller e il noir.
Hit man si “traveste” di semplicità, ma scava intimamente nell’animo umano, approfondendo il concetto di identità.
La vicenda è scandita dalla voce narrante di Johnson che, attraverso la focalizzazione interna, ci accompagna nelle diverse fasi del suo mutamento progressivo. Lo spettatore onnisciente diventa un allievo di Gary e ascolta le sue lezioni su Nietzsche consapevole degli avvenimenti che si dipanano nella sua attività parallela.
La metamorfosi avviene lentamente, ma al contempo ogni minima trasformazione viene percepita e di conseguenza siamo chiamati ad accogliere un ritmo narrativo serrato, che segue la curva del cambiamento del nostro killer passo dopo passo.
Il film scardina la nozione stessa di “hit man”, relegandola a un’invenzione della cultura di massa, a una fantasia che il personaggio principale deve incarnare.
Powell diventa camaleontico proprio come Gary, riuscendo a viaggiare da un carattere all’altro e restando sempre credibile. Lo scialbo professore di provincia può diventare chiunque con i mezzi espressivi del corpo, spostandosi sul palcoscenico della realtà. Anche le relazioni sentimentali si dimostrano più semplici indossando panni differenti e così l’uomo riesce a instaurare un rapporto complesso e ambiguo con la giovane Madison (Adria Arjona), mostrando una sicurezza difficile da attribuirgli nelle sue vesti usuali.
La verità non è più oggettiva e immutabile, la morale non può essere ridotta ad assolutismi e tutti possono diventare differenti, tutti interpretano un ruolo che finisce per rappresentarli.
Hit man capovolge il significato di “maschera”, conferendogli la capacità di svelare il volto dell’individuo, permettendogli finalmente di accedere alla piena conoscenza di se stesso.
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