Orrore e religione sono, da sempre, due concetti indissolubilmente legati. Da sempre infatti la religione si è posta, tra i suoi obiettivi, il dare una risposta ad alcuni degli interrogativi più profondi – e conseguentemente più spaventosi – posti dalla razza umana: “da dove veniamo”, “chi siamo”, “esistono forme di vita superiori a noi” sono solo alcune di queste domande e, a seconda del periodo storico e del luogo di analisi, è sempre possibile trovare risposte, a volte simili a volte differenti, nelle varie religioni più o meno famose. Forse per un effetto inverso, la narrativa dell’orrore ha poi spesso preso spunto proprio da alcuni degli elementi fondanti delle religioni per costruire storie che permettessero spesso di riflettere su questi fondamenti, di fatto, spaventosi a loro volta: il romanzo gotico è pregno di rimandi alla religione cristiana – ed in alcuni casi anche a religioni pagane –, basti pensare all’uomo che aspira a sconfiggere la morte o a creare la vita de Il misterioso caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, Il ritratto di Dorian Grey o Frankenstein (non a caso il sottotitolo, spesso dimenticato, è Il moderno Prometeo) ma ancora Dracula oppure i romanzi di Edgar Allan Poe o H. P. Lovecraft.

Discutendo di horror e religione è, però, spesso un nome che, più di tutti, si erge come simbolo di questa dicotomia: L’esorcista. Che si tratti del romanzo scritto da William Peter Blatty o della pellicola diretta da William Friedkin, questo capolavoro – termine che estendiamo parlando sia dell’opera letteraria che del film – ha plasmato, consciamente o non, un’intera generazione di artisti, romanzieri e cineasti, portando allo spopolamento del sottogenere della possessione demoniaca che, a cinquantadue anni dall’uscita del film di Friedkin, conta un elenco sterminato di pellicole più o meno riuscite. Un numero talmente elevato che, al giorno d’oggi, non sempre viene accettato con trepidazione l’annuncio di un altro film horror che ruota attorno a tematiche religiose, senonché la nuova pellicola del duo Beck-Woods si pone non solo esterna alle dinamiche, ormai eccessivamente consumate, della possessione demoniaca preferendo invece una riflessione sulla natura della religione stessa ma lo fa proponendo un cast capitanato da Hugh Grant e dalla nuova horror icon in ascesa Sophie Thatcher. Oh, inoltre a produrre c’è l’ormai celeberrima A24, spesso sinonimo di garanzia e successo in ambito horror: cosa può andare storto?

Fede o miscredenza

Dopo aver aperto con titoli di testa accompagnati da un dialogo tra le due protagoniste, sorella Barton (Chloe East) e sorella Paxton (Sophie Thatcher) sulle differenze tra le dimensioni dei preservativi e di come il marketing possa influenzare e convincere su qualcosa senza che nessuna dimostrazione empirica, le due sorelle, che scopriamo essere mormoni facenti parte della Chiesa di Gesù Cristo dei santi degli ultimi giorni, si incamminano casa per casa contattando persone che avevano in precedenza mostrato interessa nei confronti della loro chiesa. Arrivate alla casa del signor Reed (Hugh Grant), le due accettano di entrare per ripararsi dalla pioggia, inconsapevoli che l’uomo ha in serbo per loro ben altro che una semplice chiacchierata sui dogmi della loro chiesa.

Inizialmente, la pellicola propone una struttura semplice ma funzionale, basata su un dialogo continuo tra il padrone di casa e le due sorelle costruito su uno scambio di opinioni e di domande sempre più personali e pressanti, tanto da creare una tensione continua senza il bisogno di jumpscare o sequenze particolarmente violente. La sola presenza scenica del signor Reed, con la sua voce calma e fredda, il passaggio continuo da momenti di pieno controllo ad altri di quasi sottomissione e le sue continue manipolazioni trasportano infatti lo spettatore assieme alle due sorelle in una spirale di dubbi, in cui le fondamenta stesse di ciò in cui credono vengono messe in seria discussione.

In tutto questo gioca un ruolo fondamentale la maestria del duo (qui anche sceneggiatori) di saper convogliare nei dialoghi la giusta energia per colpire direttamente il pubblico adolescenziale “Gen Z” di riferimento della pellicola, riempiendo di citazioni alla cultura pop una riflessione che – oltre alla sopracitata discussione sui preservativi Magnum – si srotola costruendo paragoni tra le varie religioni e le versioni del Monopoly e discutendo delle cause di plagio tra gli Hollies, i Radiohead e Lana Del Rey, fino ad arrivare ad un paragone con Star Wars di natura chiaramente meme, costruendo così un’atmosfera a tratti surreale ma sempre inquietante e disturbante.

“Io le chiamo le Big Three.

L’ebraismo, la versione originale: The Landlord’s Game.

Il cattolicesimo, la versione più popolare: Monopoly.

L’islam, la versione moderna meno popolare: Monopoly Ultimate Banking.

[…] E finalmente, dopo ottocento anni, il mormonismo, la bizzarra edizione spin-off regionale: Monopoly Bob Ross Edition.”

Diverse iterazioni dello stesso materiale di base

Forse proprio per la forza dirompente e – a tratti – geniale della scrittura della prima parte, capace di decostruire sia le credenze dello spettatore, grazie a momenti che costruiscono l’attesa di spaventi che non arrivano mai, sia le credenze delle due protagoniste in ambito religioso e personale, il rientrare su binari più classici e “canonici” della seconda metà rende la scottatura ancora più dolorosa. Evitando di approfondire eccessivamente per non rovinare i – forse troppo, numerosi – twist narrativi che si susseguono nella seconda parte, possiamo dire che la pellicola procede cercando di costruire un racconto di stampo meno filosofico e più concreto, mettendo in scena elementi classici del cinema dell’orrore senza però interessanti novità ma soprattutto incappando nella volontà di voler mescolare elementi differenti che, a visione conclusa, piuttosto che lasciare allo spettatore la scelta di “decidere in cosa credere” lo portano ad una confusione nel dover escludere a priori alcuni momenti per far tornare il discorso. Ciò dispiace molto, soprattutto a fronte di una rivelazione finale che, se sul momento può risultare forse banale, a mente fredda si sarebbe dimostrata perfetta senza quelle storture volute, forse, soprattutto per creare un effetto wow.

Sul “Fattore A24” non possiamo dire di essere davanti ad una delle pellicole più iconiche della casa, ma al tempo stesso bisogna riconoscere una certa cura nella costruzione degli ambienti, nell’utilizzo sapiente dei suoni e di una regia che bilancia sapientemente inquadrature più statiche ad altre dalle valenze più “artistiche” mai stucchevoli. Su tutto di certo spiccano però le ottime interpretazioni delle due giovani Chloe East e Sophie Thatcher, perfette nel riuscire a manifestare tensione e spavento attraverso una recitazione fatta di microespressioni e piccoli movimenti facciali e oculari, e ovviamente di Hugh Grant, capace di costruire un personaggio che riesce ad essere sempre spaventoso senza mai risultare costruito o macchiettistico.

Conclusioni

Heretic – finalmente arrivato in Italia, anche se con tre mesi di ritardo – è certamente una pellicola che cerca di proporre una visione differente rispetto al solito sul binomio religione ed orrore e ci riesce egregiamente per tutta la prima parte del film, costruendosi su un dialogo continuo tra le due giovani sorelle mormoni e il proprietario di casa. La decostruzione del credo religioso, tra citazioni filosofiche e parallelismi con le varie versioni del Monopoly, lascia però poi spazio nella seconda parte ad una narrazione di stampo più classico, meno coraggiosa non tanto nella scoperta della verità quanto nel non voler dare una risposta diretta allo spettatore, portandolo ad uscire dalla sala confuso. A fronte però di una prima metà dai tratti geniali ed un comparto tecnico ed estetico estremamente curato, consigliamo senz’altro di dare una possibilità ad Heretic e di goderselo in sala (soprattutto se dotata di un ottimo impianto stereo).

Mattia Bianconi
Mattia Bianconi,
Redattore.