“La maggior parte di noi ha bisogno di uova.”
(Woody Allen, Io e Annie, 1977)
Nella genealogia delle tante aberrazioni familiari e adolescenziali frequentate dal cinema, Hatching – La forma del male (Pahanhautoja), esordio alla regia della finlandese Anna Bergholm, trova il suo ramo di discendenza lungo la linea di sangue dell’horror mother-daughter. Questo sottogenere, caratterizzato dalle unghiacce lunghe del mostruoso artigliate in quel nucleo di realismo contorto e traumatico perfino più terrificante, fatto di legami parentali asfissianti e deviati, ritratti sfibrati e coraggiosi di una femminilità vittima e carnefice, vivide proiezioni psicanalitiche addensate nella cruenta irruzione del soprannaturale, ha sfornato negli anni diverse opere di grande qualità: dall’imprescindibile Carrie di Brian De Palma (1976) a suggestivi epigoni contemporanei come A Banquet (2021) di Ruth Paxton (inedito in Italia) o il più celebre Babadook (2014) di Jennifer Kent.
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La protagonista della vicenda è la dodicenne Tinja (Siiri Solalinna), tranquilla ragazzina di un’agiata famiglia che pare incorniciata nella felicità armoniosa di una vita da dépliant pubblicitario del benessere. Governata da una madre social maniac (l’inquietante Sophia Heikkilä) che filma morbosamente ogni momento del quotidiano, e che dietro un’avvenente maschera di modi concilianti e affabile candore cela la feroce determinazione e l’egoismo con cui dirige i rapporti domestici: tradisce senza segreti, e anzi col sorriso sulle labbra, il pietoso e insignificante marito (che accetta passivamente la situazione), scansa l’affetto per il figlio più piccolo e soprattutto segue con attenzione maniacale gli allenamenti da ginnasta di Tinja, in previsione di un’imminente gara. Sottoposta a pressioni enormi, in un’aria che comincia a farsi strana, durante un’uscita notturna dai contorni onirici Tinja finisce a sassate il corvo già agonizzante che poco prima era penetrato in casa sua, scoprendo a fianco della carogna un piccolo uovo, che decide di portare via con sé.
L’uovo cresce a dismisura e velocità rapidissima, avvampa come una rossa membrana pulsante, dà colpi come un nascituro in grembo, batte come un cuore rivelatore degli impulsi profondi soffocati da Tinja, preme per venire alla luce in orribili forme e rompere il guscio di ipocrisia del nido familiare, verniciato di uno smalto di fintissimo e insopportabile decoro idilliaco.
Lo strano ibrido d’uccello (un animatronic opera del designer Gustav Hoegen) adottato e cresciuto da Tinja, sorta di bambola lurida, brutto anatroccolo e animalesco doppio – via via più umano – a cui dare un soprannome come a un’amichetta (Alli), spazzolare i capelli sporchi e radi e medicare le ferite (le stesse piaghe scavate nelle mani della ragazza dai ripetuti esercizi alla sbarra), sta appostato tra gli angoli di casa, fa il bagno in vasca come E.T. e disperde saliva e bave repellenti come un Alien.
Nascosto nell’armadio, sotto il letto, aggrappato agli stipiti e alle grucce, pronto a saltare addosso o inseguire alle spalle la minaccia designata, come facevano i “figli della rabbia” incubati e partoriti da Nola Carveth in The Brood – La covata malefica (1979) di David Cronenberg: immondi nanetti sguinzagliati nel mondo a eliminare ostacoli e riparare torti subiti o percepiti dalla madre, similmente a come la filacciosa e beccuta creatura (s)covata da Tinja (piccola e accudente madre affettuosa, che tollera il difforme e il deforme, al contrario dell’inflessibile specchio di perfezione della genitrice) sembra assorbire e somatizzare materialmente all’esterno nevrosi e pulsioni represse della ragazzina. Mettendo in atto brutali rappresaglie e tentando assalti su chi ne disturba la quiete e il percorso di affermazione (l’ostile e rumoroso cane dei vicini, il fratellino spione, la nuova compagna-rivale in palestra, il vedovo amante della madre con figlioletta neonata).
MATER DOLOROSA
Hatching si pone al perfetto incrocio tra l’espressione materica del film di genere più esogeno – il body horror sulle metamorfosi dei corpi-cloni e i transfert delle ubique affinità telepatiche, il revenge movie cerebrale e sanguinolento – e certe tematiche da cinema d’autore europeo contemporaneo, arthouse, “da Sundance”, direbbero i meno entusiasti.
Dietro i rigurgiti opportunamente sgradevoli e indigesti per il pubblico abituato al pop-corn movie più mainstream (il becchime masticato e vomitato nella ciotola da Tinja – anche simbolo di un’allarmante anoressia-, per sfamare l’uccellino Alli come farebbe una chioccia con i suoi pulcini), ambisce al discorso metaforico sulla crisi e la degenerazione della cellula familiare, dei suoi malsani rapporti coercitivi che intrappolano la natura istintuale della persona. Incentrato su figure di maternità stonate e filiazioni abnormi (oggetto d’indagine privilegiato di questa new wave di horror nordeuropei, come anche dimostrato da Lamb dell’islandese Valdimar Jóhannsson [link recensione: https://framescinema.com/recensione-lamb/]), sviluppate in caratteri dissonanti ed eterodossi dell’identità femminile (facile richiamare il caso emblematico di Titane di Julia Ducournau, Palma D’oro a Cannes 2021).
Un femminile che va qui riscattato e liberato dall’ideale castrante di ossessiva perfezione della sua immagine pubblica, dalla condanna all’infallibilità della performance sociale, in un regime di rappresentazione e visibilità sempre più opprimente e pervasivo, tematizzato nella figura della madre-influencer che scarica sulla figlia il peso di irrisolte ambizioni frustrate (il sogno di pattinatrice interrotto presumibilmente da un infortunio di cui conserva la cicatrice), obbligandola all’esercizio sfinente, e all’invadenza costante della recita esistenziale della famiglia perfetta, offerta in streaming nel circuito della viralità.
GUIDA (HORROR) PER RICONOSCERE I TUOI FIGLI
Anna Bergholm conosce la grammatica del genere (soggettive ansiogene e aggiranti alla Carpenter, occhi che scrutano negli armadi e carcasse smembrate, montaggio parallelo nei picchi di tensione), amministra topoi (l’uccisione del corvo) e ferri del mestiere (coltelli sguainati in salotto e accette sospese su culle d’infanti in camera da letto), rivisti con sensibilità aggiornata a un moderno jeu de massacre domestico, che fa a fette il quadretto illlusorio della famigliola borghese in villetta, e ne insozza il selfie zuccheroso tra la carta da parati a fiori e le morbide tinte pastello dei filtri social.
Hatching si muove con perizia tra spazi, tempi e corridoi della suspense di un thriller claustrofobico da cameretta degli orrori, con vista pessimistica su un mondo di adulti che frana tra esasperata intrusione dominante (la madre tiranna) e un’assenza così tragica e patetica da risultare perfino comica (l’insulso padre dal sorriso ebete, in polo rosa, calzoni kaki e ordinato maglioncino sulle spalle). Un’inquietante allegoria delle intrinseche contraddizioni e dei poli opposti del femminile, incarnati in una maternità mostruosa e duplice (benigna e assassina, cannibale e nutrice), trasmessa ai figli come il contagio di una tara ereditaria.
Un coming of age di ingresso all’età del dolore come una rilettura fiabesca dell’attraversamento di una soglia che comporta l’abbandono dell’innocenza e la perdita di sangue (quello mestruale del quale il padre di Tinija crede di vedere le macchie sul letto, senza comprendere nulla). Come inevitabile processo di rinascita e fisica reincarnazione nella propria metà oscura: la scomoda e raccapricciante accettazione del lato più fosco e repulsivo di ogni identità in fieri, che si vorrebbe nascondere sotto un tappeto visivo di splendente e imperturbabile sicurezza normativa da famiglia modello.
In un andamento compatto ma tutto sommato prevedibile, il film di Bergholm si tiene in equilibrio tra la tensione sottile e impalpabile che si irradia dal volto ambivalente e del doppio corpo, vulnerabile e aggressivo, della protagonista (la bravissima Siiri Solalinna, stretta nel tormento interiore tra una fragilità indifesa e un’impressionante maturità) e le eruzioni cutanee di orrore puro.
Ciò che colpisce meno è la satira trasparente e non troppo ficcante – forse perché non proprio nuovissima – delle video-ossessioni social. Così come manca, forse, un vero colpo d’ala registico capace di rendere Hatching un horror davvero sovversivo e potentemente disturbante sul duello tra genitori e figli, come The Innocents (2021) di Eskil Vogt (del quale resta insuperata la scena della sadica vendetta sul materno a opera del piccolo villain telecinetico). Dall’uovo di Anna Bergholm, sguscia comunque fuori una gradita e affilata sorpresa orrorifica da non mancare in sala.
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