In un momento di difficoltà storica per l’industria dello spettacolo, che, complice la pandemia e i conseguenti problemi produttivi, ha faticato a mantenere i ritmi a cui l’era della “peak television” ci aveva abituato, una delle poche eccezioni è rappresentata da Ryan Murphy. Quest’ultimo, infatti, fresco dell’accordo multi-milionario con Netflix, nell’ultimo anno ha dato alla luce un numero impressionante di progetti diversi fra loro, non sempre, bisogna dire, soddisfando le aspettative che ormai sono legate al suo nome. L’ultimo di questi è la miniserie Halston, che racconta, nell’arco di 5 puntate, l’ascesa e la caduta dell’omonimo stilista statunitense famoso negli anni ’70 nonché uno degli animatori e frequentatori più assidui della scena disco newyorkese che ruotava attorno al leggendario Studio 54.
Questa miniserie è un ulteriore tassello di quello che, da un po’ di tempo a questa parte, sembra essere il programma narrativo e culturale di Ryan Murphy: partendo da spunti più o meno ancorati alla realtà (vedi Hollywood, Pose o American Crime Story) o ad altre narrative (ad esempio Ratched) vuole poi costruire un suo personale discorso, fornendo spunti di riflessione su svariate tematiche, fra cui in maniera preponderante il ruolo della comunità LGBTQ+ e delle altre minoranze. Nonostante in questo caso non curi personalmente la regia, affidata invece a Daniel Minhan, lo stile è comunque quello inconfondibilmente barocco che è ormai la cifra delle produzioni di Murphy, e che qui necessariamente esalta al massimo non solo i costumi, come ovvio che sia, ma anche gli ambienti, i quali, grazie anche ad un budget sicuramente molto alto, sono curati nei minimi particolari e risultano decisamente affascinanti e di impatto. Inoltre, come già si era visto in molte sue precedenti produzioni, Murphy non si pone apparentemente alcun problema nel portare sul piccolo schermo personaggi leggendari del mondo dello spettacolo statunitense, aspetto al quale altri, al suo posto, porrebbero molta più cautela. Ed ecco che nel corso dei cinque episodi troviamo, oltre ad Halston stesso, l’attrice e cantante Liza Minnelli, la celebre ballerina e coreografa Martha Graham, la designer Elsa Peretti e tanti altri animatori e frequentatori dello Studio 54. L’unico su cui si è mosso più prudentemente in questo caso è stato Andy Warhol, più volte nominato ma che non vediamo mai sullo schermo.
Altro elemento riconoscibile che ritorna è una rappresentazione senza filtri del sesso, specialmente quello omosessuale, e dello sfrenato uso di droghe, quest’ultimo evidenziato molto bene, anche visivamente, nella sua ripetitività. Tutto ciò è oggi possibile grazie ai lavori di Ryan Murphy stesso ma anche di altri registi e produttori, i quali hanno portato allo sdoganamento di certe rappresentazioni sul piccolo schermo.
L’aspetto che in questo caso risulta più tradizionale è probabilmente quello narrativo. La vita dello stilista infatti viene raccontata secondo il tipico schema di rise-and-fall dell’antieroe, che, dopo una scalata vertiginosa verso un successo stratosferico, altrettanto vertiginosamente crolla, complice l’arroganza, la perdita dei punti di riferimento più fidati e il consumo smoderato di cocaina. Se questo rientrare in binari già prestabiliti rende la serie tutto sommato godibile, prevenendo alcuni scivoloni che in altri casi (di nuovo Hollywood oppure The Politician, ma soprattutto il musical The Prom) avevano rovinato progetti partiti con una premessa interessante, tuttavia ciò la rende anche prevedibile e non molto incisiva per quello che dovrebbe essere un prodotto di punta. Ci sono certo alcune riflessioni interessanti, come ad esempio lo scontro fra le ragioni del mercato, da cui lo stilista viene ad un certo punto travolto perdendo addirittura i diritti sul suo stesso nome, e quelle dell’arte, un fiore che dovrebbe essere coltivato e protetto con cura, perché fragile e prezioso, come le orchidee tanto amate dallo stilista – “bellissime ma senza nessun profumo”. Ma questi discorsi non vengono sviluppati ulteriormente, e si perdono, fini a sé stessi.
Forse proprio quest’ultimo elemento disegna involontariamente un paragone con lo stesso Ryan Murphy, che nella sua produzione sovrabbondante forse ha perso la visione organica delle sue idee, a causa probabilmente di una mancata riflessione approfondito e di uno sviluppo coerente delle stesse. Non che l’aspetto commerciale sia un problema di per sé; la televisione soprattutto, ma anche il cinema, sono il caso più evidente di fusione fra arte, intrattenimento e necessità commerciali. Ma la differenza viene da come questi aspetti si compenetrano fra di loro in maniera organica e intelligente, sostenendosi a vicenda, e questa delicata alchimia non sempre negli ultimi tempi è venuta fuori nelle produzioni dello showrunner americano.
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