Ticking bomb: Rocket Raccoon morirà entro 48 ore se i Guardiani non trovano un modo per salvarlo. Eggià. Inizia proprio così Guardiani della Galassia Vol.3. Con uno dei personaggi più memorabili di tutto l’universo Marvel in fin di vita. In realtà ancora prima della bomba a orologeria non poteva mancare l’iconica intro su tappeto musicale che aveva aperto anche gli altri due volumi: Rocket ascolta Creep dei Radiohead mentre vaga triste per Knowhere (la comunità galattica dove si sono stabiliti i Guardiani). Creep, weird, esattamente come Rocket, un mostro. Niente balletti di Peter Quill sulle note di Come and get your love o di Groot su quelle di Mr. Blue Sky. Con la malinconia di Creep – assieme alla classica sigla dei Marvel Studios interamente dedicata ai Guardiani – Gunn mette in chiaro sin da subito che questo è un epilogo, la conclusione di un ciclo. Del suo ciclo galattico. Ed è forse l’unica saga per cui possiamo utilizzare questo aggettivo possessivo, perché è una sua creatura. Termine non casuale. Creature, freaks, quelle che Gunn difende da sempre e a cui vuole dare dignità sin dai tempi della Troma (ma d’altronde era allievo di John Landis, cosa ci aspettavamo?).

Rocket Raccoon (Bradley Cooper) da cucciolo

Come sono sue creature i Guardiani. Certo, derivano dai comics, ma l’identità che hanno assunto su grande schermo è riconoscibile e personale. Identità. Già. Parola dimenticata ormai da tempo in casa Marvel. Identità. Proprio quella che ci rende unici. Quella che ti stupisce quando incontri una persona nuova. Quella inaspettata, che ti coglie di sorpresa. Che ti rinvigorisce, perché sai che potrà arricchirti e regalarti un tassello di vita che prima ti mancava. Quand’è l’ultima volta che avevamo potuto utilizzare questo termine prezioso per un lavoro MCU? Quand’è che eravamo rimasti sorpresi? Stupiti? Escludendo a priori la “fase 4” (eccezion fatta per WandaVision, ma si sta parlando di prodotti per il grande schermo) cosa rimane? Infinity War? Endgame? No: pur essendo bei film, si giocava troppo facile. Veder tirate le fila di dieci anni di universo cinematografico condiviso, certo, c’era lo stupore. Ma troppo facile. E l’identità era un lego di piccoli tasselli audiovisivi disseminati nell’arco di tutto quel tempo. Qui si sta parlando proprio di un prodotto identitario, unico, con un’estetica riconoscibile, capace di reggersi in piedi da solo. Smettiamo di girarci attorno: è la saga dei Guardiani della Galassia.

I Guardiani della Galassia avanzano verso l’ultimo e epico scontro

La formula-Marvel ormai è chiara: i registi sono un brand, un marchio da affibbiare ai film dove dei directors rimane soltanto qualche sintomo e qualche guizzo. L’autorialità del singolo è perennemente imbrigliata in quella più grande dell’enorme macchina produttiva dei Marvel Studios. I due deprimenti Thor: Ragnarok e Thor: Love and Thunder di Taika Waititi sono l’esempio per antonomasia: tanto (tantissimo) rumore per nulla. In 15 anni di MCU e dopo ben 31 film l’unico a uscirne vincitore è proprio lui: James Gunn. Per mera fortuna? O perché è riuscito a plasmare la saga che meglio si confaceva al suo background cinematografico di losers e di idioti (come sono tutti i Guardiani tranne Nebula e Gamora)? Attenzione: non idioti con accezione dispregiativa, ma nel senso von-trieriano del termine. O meglio: con lo stesso sguardo affettuoso da parte del regista. Quegli idioti che la sanno lunga. Molto più lunga dei normali. Che ora sbagliano e che cercano riscatto: non dimentichiamo che Peter Quill è la causa del disastro di Infinity War, mica bazzecole. E ora, in questo terzo volume (l’unica trilogia che si può fregiare di questo termine, a rimarcare come sia una mosca bianca nel mare magnum della Marvel) scopriamo che anche Rocket aveva diversi scheletri nell’armadio. Metacinema? Può darsi: tutto richiama il riscatto e la rivincita che lo stesso Gunn sembra volersi prendere dopo il licenziamento (ingiustissimo) ad opera della Disney nel luglio 2018, per via di tweet (per nulla) controversi di anni e anni addietro. Poi il reintegro nel marzo 2019, ma intanto era già andato dalla concorrenza e ancora una volta non aveva sbagliato: nel 2021 il suo The Suicide Squad – Missione suicida aveva convinto critica e pubblico facendo dimenticare a tutti il primo nefasto capitolo di David Ayer. Una convinzione generale così marcata che Gunn ha accettato il ruolo di co-presidente dei DC Studios nell’ottobre 2022. Fine della parentesi con la Marvel (come quella di Victoria Alonso, vice-presidente dei Marvel Studios e responsabile della sezione VFX che si è dimessa il 17 marzo 2023), ma c’era ancora spazio per quest’ultimo galattico capitolo dei suoi amati outsiders.

Il coniglietto Floor (Mikaela Hoover), amico d’infanzia di Rocket

Da dove eravamo partiti? Ah, già: da Rocket e la ticking bomb. Che personaggio magnifico, Rocket. Il primo personaggio dell’MCU che mette in campo il transumanesimo e il body horror. Sì, ancor più che in Doctor Strange nel Multiverso della Follia (dove ancora: le parvenze di horror erano soltanto eco del brand-Raimi) qui c’è davvero il body horror: come testimonia il villain (l’Alto Evoluzionario interpretato da Chukwudi Iwuji) che rievoca i cenobiti di barkeriana memoria, oppure gli animali con ferraglie trapiantate nel cranio e negli arti (esperimenti talmente crudeli da portare Nebula a confessare che ciò che hanno fatto a Rocket è molto peggio di quello che Thanos ha fatto a lei); ma il film è pieno zeppo di escrescenze, tanto che interi quartier generali come l’Orgosfera sono fatti di “antimateria organica”, riempiendo le inquadrature di organi e protuberanze (le stesse che poi si creeranno nel volto di uno dei protagonisti in una delle scene più tese). A dire il vero c’è l’horror tutto: Rocket è il perfetto simulacro del Frankenstein di Mary Shelley. Perfetto non a caso: il piano dell’Alto Evoluzionario porta la concezione gotica dell’essere perfetto a una dimensione universale, tentando di creare un vero e proprio nuovo cosmo di perfezione assoluta (non lontano dall’universo perfettamente bilanciato di Thanos).

L’alto Evoluzionario (Chukwudi Iwuji) richiama i Cenobiti di Hellraiser

Il film, pur adeguandosi al target di riferimento, resta sempre esplicito senza lesinare sulla crudezza di certi passaggi, confermando come Gunn non segua ordini imposti dall’alto ma riesca a mantenere salda l’identità della saga: tornano gli iconici accompagnamenti musicali – oltre a Creep si segnala anche No Sleep Till Brooklyn dei Beastie Boys nella sequenza più memorabile e folle del film -, c’è una rinnovata commistione di prostetica e CGI che rende tutto tangibile e credibile, un entusiasmante industrial design degli ambienti cosmici e soprattutto un climax – grazie anche all’espediente della bomba a orologeria – che non potrà che chiudersi in un inno al diverso, all’imperfezione, ai losers, all’unione e al gioco di squadra (all’organico, appunto). Perché per Gunn siamo tutti idioti, sia i buoni che i cattivi (“È proprio uno scemo!” diranno di Adam Warlock, anch’esso frutto di un esperimento della razza malvagia dei Sovereign)

La perfezione cosmologica agognata dall’Alto Evoluzionario sembra terribilmente simile a quella a cui mira il progetto MCU; più che un saluto affettuoso, quello di Gunn è un dito medio ai Marvel Studios prima del commiato, perché con uno dei suoi lavori più concettualmente compiuti lo ha dimostrato di nuovo: per ora nel panorama dei cinecomics gioca un altro campionato.

Alberto Faggiotto
Alberto Faggiotto,
Caporedattore.