Quante volte ci siamo trovati di fronte alla potenza della sala cinematografica trasposta su pellicola? Quante volte siamo stati partecipi del gioco metacinematografico regista – attore – spettatore? Eppure questi intrecci di sguardi, di sottesa commozione, di comune entusiasmo per racconti visti e non vissuti ma condivisi emotivamente nel silenzio della sala, non arriveranno mai a stancarci. 

È per questo che è sempre consigliabile vedere i film in compagnia: è nella contemplazione di un’opera d’arte – quale quella filmica – che si intensificano i rapporti interpersonali. È tramite l’esperienza cinematografica che si sprofonda in una sorta di seduta psicologica di gruppo. Ricorderemo per sempre la scena del cinema di Amarcord. Ricorderemo per sempre la commozione di Nuovo Cinema Paradiso.

E ora rimarrà impresso nella nostra memoria anche il malinconico e nostalgico lavoro di Tsai Ming-liang, Goodbye, Dragon Inn (2003): il racconto sulla fine di un’era, di un cinema che si è prima dissolto e ha poi cambiato forma, nella fitta e scrosciante pioggia di una Taipei desolata e decadente.

L’EREDITA’ DELL’ORIENTE E LA SUA METABOLIZZAZIONE

Lo stile di Tsai, prettamente “bressoniano”, lontanissimo dal gusto mainstream che popola la maggior parte delle sale cinematografiche, era già giunto all’attenzione del pubblico e della critica nel 1994 con Vive l’Amour, vincitore del Leone d’oro alla 51ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Quanto dev’essere difficile reggere il peso dei grandi maestri come Edward Yang: non ci hanno già narrato tutto dell’inesorabile e ineluttabile mutazione di Taiwan? Goodbye, Dragon Inn, in questo senso, opera un astuto lavoro di cinema e metacinema, abbracciando l’estetica e la poetica dei suoi spiriti guida ma, al contempo, personalizzandola e addirittura oltrepassandola: le inquadrature estatiche da slow cinema, i lunghi piani sequenza e il sonoro (molto spesso) diegetico che già avevamo conosciuto in Vive l’Amour sono ora trasportati in un cinema di Taipei dal clima rarefatto e quasi onirico, dove le storie di pochi personaggi si intrecciano come testamenti di anime ormai svanite: la bigliettaia (Chen Shiang-chyi), il proiezionista (Lee Kang-sheng, l’interprete feticcio di Tsai), un turista giapponese (Mitamura Kiyonobu) e i due protagonisti della pellicola proiettata, Dragon Inn (1967, di King Hu).

Anime perse, come Taiwan e la sua Storia. Anime che arrancano e zoppicano per avanzare, proprio come la stessa Nazione e il suo Cinema, dove Yang e il genere wuxiapian sembrano ormai sogni lontani. Ma anche anime a cui scende una lacrima nel vedersi su quel grande schermo: il Cinema.

Che cos’è, infatti, la Settima Arte, se non gli sguardi commossi e struggenti di Chun Shih e Miao Tien che fissano i loro rispettivi personaggi interpretati in Dragon Inn (allo stesso modo della Margot Robbie/Sharon Tate nell’ultimo Tarantino)? 

Il cinema è un sogno sospeso nel tempo, proprio come Goodbye, Dragon Inn. Un’atemporalità che rende i personaggi gli stessi fantasmi che popolano i film del passato, all’interno di una Settima Arte in cui rimangono solo le ombre dei fasti che furono: “Non vedevo un film da molto tempo. Ormai nessuno viene più al cinema”, recita lo scambio di battute alla fine della proiezione fra Chun Shih e Miao Tien.

Leggiamo i titoli di testa dell’opera di King Hu. L’audio (che nel film è curato da Tu Duu-chih, già collaboratore di Hou Hsiao-hsien e Edward Yang) è quello originale; pian piano diventa sempre più echeggiante tramutandosi impercettibilmente in quello della versione proiettata al cinema di Taipei. Una soggettiva riprende la prima sequenza da dietro a un sipario, gettando lo sguardo su una sala pressoché vuota. Il cinema è irrimediabilmente cambiato.

Facciamo in modo che il dialogo fra Chun e Miao sia un monito e non una sentenza: il Cinema non è morto, ha semplicemente cambiato rotta.

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Alberto Faggiotto, Redattore