L’islandese Hlynur Pálmason approda con il glaciale e magnifico Godland (presentato a Cannes 75 nella sezione Un Certain Regard, e di recente proposto nel fuori concorso del 40° Torino Film Festival) al terzo lungometraggio, alzando decisamente la posta e le ambizioni filosofiche, stilistiche e teoriche rispetto all’esordio (la caustica e surreale commedia nera Vinterbrødre/Winter Brothers, 2017) e al precedente lavoro, l’apprezzato thriller drammatico e introspettivo A White White Day – Segreti nella nebbia (2019), vincitore del 37° Torino Film Festival: la brutta storia di un ex poliziotto vedovo alla deriva (Ingvar Sigurðsson, attore feticcio di Pálmason, che in Godland ritorna nel ruolo urticante e cruciale della guida locale Ragnar), che già incubava il tema dello smarrimento del singolo, della perdita d’innocenza e della caduta nell’abisso morale dell’uomo probo, prigioniero nello spazio aperto di una solitudine alienata, esacerbata e infittita dalle nebbie avviluppanti e lattiginose di un paesaggio specularmente ostico, impervio e desolatamente sconfinato, come un autistico non-luogo del corpo ferito e dell’anima abbandonata che perdono insieme la via della rettitudine.
Nella calma piatta e immota di un tempo sospeso, incuneato in un isolamento materiale e interiore eternamente uguale a sé stesso. Quasi impermeabile allo scorrere delle stagioni e all’eruzione dei moti di spirito, squarciato all’improvviso dalla lenta, meditata ma inesorabile discesa in un deviante maelstrom di ossessiva violenza privata, tanto autodistruttiva quanto immoralmente catartica (proiettata nell’immagine di un sasso che rotola nell’irreversibile precipitare degli eventi, che la cinepresa di Pálmason coglieva nella sua traiettoria metaforica)
Elementi e contrasti che ritornano con rinnovata prepotenza in Godland, dove il ripido e grandioso scenario naturale islandese (un personaggio a tutti gli effetti, che guida e sorveglia l’azione del film) si srotola all’indietro sulle lancette della Storia fino alla fine del XIX secolo (quando l’isola era ancora sotto la dominazione del Regno di Danimarca, protrattasi fino al 1944), per accogliere sul suo suolo la vicenda di Lucas (il bravissimo, gracile e belluino Elliott Crosset Hove), un mite e disciplinato giovane pastore protestante danese a cui viene affidato il compito di edificare una chiesa e diffondere il messaggio della fede in un remoto villaggio del Nord dell’Islanda, abitato da una piccola comunità di autoctoni che vive in armonia con la natura rigida e incontaminata.
Animato da ferrei principi religiosi e da una salda volontà di scoprire e documentare, come un etnologo-cineoperatore, un’isola e un popolo distaccati da quella che lui considera la civiltà (attraverso i ritratti delle fotografie alla gelatina d’argento, che fissano i passi e le impressioni lungo il suo percorso), vedrà presto infrangersi i suoi piani di proselitismo nella durezza spossante di un nuovo mondo che mette alla prova la sua coscienza sempre più infragilita, come un giunco affievolito esposto alle intemperie, preda del rifiuto di chi non è disposto ad accogliere la pericolosa intrusione dello straniero.
FURORE DI DIO E FORZE DELLA NATURA
Il viaggio di Pálmason e del suo errante pastore – che accorpa la bellissima prima parte del film -, pur sotto le precarie insegne simboliche (la croce di legno dispersa in mare) di una (vana) missione di matrice fideistica e spirituale, ha qualcosa dell’intima connessione con e della profonda ossessione herzoghiana per l’esplorazione materica e trasfigurante della natura laica, primigenia, non addomesticata da astrazioni trascendenti, false idolatrie e credenze superiori (l’unico fattore umano di esorcismo della potenza imperscrutabile e misterica della natura, sono le cantate e i racconti folkoristici – quasi delle ghost stories locali – fatti dallo scontroso Ragnar davanti al fuoco).
In un paesaggio alterno tanto brullo quanto vivido e rigoglioso, spaventosamente vergine e inospitale, senza scorciatoie né appigli di salvataggio, suggestivamente variegato e palpitante, tra rocce titaniche, verde selvatico e ghiacciai distesi all’infinito, come un’eterna cascata o un vulcano inesauribile, un assillante vento contrario che resiste all’avvento brutale e coercitivo della modernità.
Lo spirito (guida) di Herzog si riscontra sia nella volontà di intraprendere un più faticoso e personale cammino di conoscenza fuori dalle rotte comunemente battute (“Perché non siete arrivato fin qui via mare?”, domanda a Lucas il capopopolo Carl, ospitandolo alla sua tavola), catturando una memoria visiva e antropologica fatta di istantanee fotografiche (Lucas, che ancora non può disporre dell’occhio del cinema, si trascina ostinatamente a spalle l’ingombrante armamentario del rudimentale dagherrotipo a lastre di vetro).
Sia nel tema tipicamente herzoghiano dello scontro tra natura e cultura (arte, fede o razionalità), che si incardina nel progetto – fallimentare perché moralmente arbitrario, e in fondo folle – di edificare una qualche forma di civiltà (?) in uno spazio libero e genuinamente selvatico, che non può essere in alcun modo assoggettato alle megalomanie e alle dottrine ideologiche inventate dall’uomo.
A ben vedere, pur con minor visionarietà e impeto di conquista delirante, ma con medesima volontà di affermazione e malriposto senso di superiorità (morale), nel suo compito di fondare la chiesa “al centro del villaggio” di autoctoni islandesi, Lucas non è troppo dissimile dal Fitzcarraldo del film omonimo del 1982, nel suo sogno di erigere un teatro dell’opera nel mezzo della giungla peruviana (con gli stessi ostacoli e la radicale incomunicabilità con i nativi che incontra Lucas nel portare a termine il suo disegno).
Ci sono frangenti di poetica stasi contemplativa e fugaci indugi impalpabili di stampo quasi malickiano, ben inseriti nel racconto e impressi nella ruvidezza del particolarissimo e ibrido ambiente nordico (la morbida e amplissima panoramica sull’orizzonte desertico, che si allontana dalla processione a cavallo dei pionieri in colonna per arrivare lentamente ad abbracciare il primo piano di un Lucas esangue e febbricitante riverso sul terreno, nella scontrosa e muta indifferenza della natura circostante).
CONFINI DEL WESTERN, CANCELLI DEL CIELO
Le scene a tavola negli interni domestici dell’abitazione del patriarca Carl, sono immerse in una solennità di dialoghi allusivi e velatamente ammonitori, e in un nitore di controcampi ieratici che rievocano le tensioni familiari, le rigide dinamiche sociali, i dubbi impronunciabili tra il mistico e il mondano, tra l’adesione alla vita agreste e l’anelito alla trascendenza, derivanti dall’abbagliante rigore formale del Dreyer di Ordet (1955).
Le scene di ballo e di convivio gioviale di gruppo nel giorno di festa, tra i prati affacciati sull’Oceano e le spoglie incompiute della chiesa in costruzione, raccolgono il senso di una piccola e operosa epica umana in via di (ri)fondazione, lo sviluppo di una ristretta comunità all’apparenza placida e solidale ma perennemente sull’orlo della diffidenza e del pericolo a contatto con l’invasione esterna. Quasi che Pálmason volesse qui rievocare le atmosfere da paradiso perduto – e presto immerso nel sangue di segrete faide – di un film come I cancelli del cielo (1980) di Michael Cimino, solamente trasferito nell’asprezza della wilderness islandese e nell’essenziale ermetismo stilistico del regista nordico. Un impianto che apre al baratro della caduta nel peccato e nel crimine contro l’uomo senza accessi gridati e magniloquenti, ma con lo stesso, ineluttabile e impercettibile corso degli eventi con cui la natura assiste impassibile al mutare delle malformazioni endemiche della terra. Accogliendo il corpo e il destino dell’uomo come una naturale sostanza riassorbita da fiori ed erbacce.
La cinepresa attenta, discreta ma ultrasensibile di Pálmason (i sinuosi carrelli panoramici, le cangianti sfumature nitide e caliginose dello splendido 35 mm di Maria von Hausswolf), tra POV a strapiombo e l’installazione minuziosa nelle asperità dei dettagli carnali e materici, esplora con lo stesso cupo e meravigliato sense of wonder – insieme ai suoi pellegrini in transito – l’immensità suggestiva degli scenari scoscesi e perigliosi e la rustica quotidianità dei quadretti antropologici, che si insozzano a contatto con l’emersione dei germi del male al loro interno. Senza attardarsi nella tentazione del lirismo e negli eccessi osservativi dello slow cinema naturalista formato road-movie montano (giusto il tempo di fare una rapida ed emblematica fotografia rappresentativa, verrebbe da dire), e anzi tenendo sempre a fuoco l’intaglio delle psicologie e l’insorgere del dramma, con ammirevole economia descrittiva e la potente sintesi espressiva di un ascetico e sensuale western esistenzialista alla fine del mondo.
In questo senso, la concisione del formato quadrato 1.33 : 1 (come nell’italiano Le otto montagne di Van Groeningen e Vandermeersch), che ricalca la cornice delle fotografie, scongiura l’espansione improvvida e le inutili divagazioni dello sguardo nell’orizzonte della cartolina turistica vintage, per rintracciare piuttosto le connessioni intime e ristrette tra i personaggi e il paesaggio ambivalente, a loro misura, che li alleva e li accerchia come nel rifugio di una grotta, protettivo e minaccioso. Arcaico, muto e brumoso ma anche vivo e guizzante come un fervido brulicare di insetti.
Una natura che quasi per osmosi si insinua nelle membra stanche di coloro che la attraversano e vi pestano sopra i piedi, ammantando di oscuri simboli e sinistri presagi i sogni offuscati da strane visioni (il racconto di Ragnar sul viandante inquietato dai gemiti delle anguille che si accoppiano lascivamente nelle acque dell’Oceano, preludio all’onirico sgomento di trovare la moglie circuita in un gorgo sessuale dai contadini del villaggio: concrezione di represse paure fantasmatiche sull’inafferrabilità di un femminile che, in una società ancora retriva, è percepito come minaccioso attentato alla virilità).
Il tipico respiro narrativo allentato e riflessivo di Pálmason si distende qui a pieni polmoni in un intrigo ferocemente robusto e appassionante, implacabile e ferale come una secca parabola evangelica e bucolica che volge al nero, immersa in un’amarezza sconsolante, decisamente lontana da toni elegiaci. Dove la densità e la ricchezza dei temi e dei motivi trovano uno scrupoloso equilibrio tra l’avventura nell’ignoto e il violento apologo confessionale della morale decaduta, tra la portata tecnica e teorica del discorso sulla produzione (e la conservazione) delle immagini e la riflessione sul crogiolo linguistico delle doppie identità meticce (danese e islandese) che cozzano tra loro sulla superficie della stessa “terra malformata” contesa e condivisa: la traduzione letterale incarnata nella scissione della Vanskabte Land (danese) e della Volaða Land (islandese), che eludono il riferimento divino contenuto nel titolo internazionale Godland. Come se Dio, qui, in questa landa magmatica, vischiosa, instabile e ribollente come lava, in una costante palingenesi di zone a rischio che emanano odori acri e tali da far impazzire l’uomo, portandone allo scoperto la natura ferina e pulsionale nascosta sotto gli abiti civili, non potesse abitare, attecchire, mettere radici. Così come su uno spoglio deserto di sentimenti raggelati (l’impossibile mélo di Lucas con Anna), l’uomo di (poca) fede non può edificare le sue fragili e infondate certezze.
FEDE NELLE IMMAGINI: VENGA IL TUO REGNO PER UN CAVALLO
Il cavallo, un po’ come in Nope di Jordan Peele, è assunto in Godland come la figura simbolica centrale per una riflessione teorica sulle immagini e la loro sopravvivenza, sulla riconfigurazione di un’icona tipica del western (Lucas, meglio ricordarlo, ha immancabilmente problemi a domare i cavalli, fino ad essere disarcionato), la cui traccia visiva si presta ad un discorso sulla sedimentazione delle memorie saggiate come strati di fossili rinvenuti sul terreno (più ancora che come fotografie di un’altra epoca dischiuse dalla scatola narrativa).
Il montaggio di ripetute immagini in plongée – e in timelapse – che Pálmason dispone come un’autopsia visuale sulla carcassa del cavallo in decomposizione, è come se racchiudesse una documentazione testamentaria, in tempo reale, sull’ineluttabile decorso trasformativo della natura, sulla deperibilità della materia organica che non può scampare alla morte al lavoro insita nello scorrere delle immagini. Come un controtipo a rovescio delle celebri cronofotografie di Eadweard Muybridge (1830 – 1904): in cui la successione del profilo del cavallo, in corsa impetuosa e stilizzata, creava al contrario, per la prima volta con tanta evidenza nel precinema, l’illusione e il senso di progressione del movimento che avrebbe presto preso vita su uno schermo.
Un’ideale corsa verso la nascita del cinema di là da venire, che invece Pálmason – da dentro un universo narrativo in cui il cinema, diegeticamente, ancora non esiste, ma si manifesta solo dall’alto del suo gesto registico – rappresenta nel suo moto contrario, come dentro un imperituro fermo immagine rianimato dal nostro sguardo: ingessando la posa in quella del cadavere che da un frame all’altro si smembra e si dissolve (e allo stesso tempo si eterna sulla pellicola). Raggelando il movimento nella fissa immobilità dell’animale morto, che progressivamente, a intervalli regolari di tempo, si disfa sotto i nostri occhi. Spolpato nelle carni e disgregato nelle ossa dall’azione del tempo e degli elementi naturali. Come accade, in significativo parallelo, all’uomo stesso.
In una prassi teorica esibita senza sottolineature forzose ma in modo netto e trasparente, Pálmason, quasi aderendo in maniera diligente e cristallina al complesso della mummia di Andrè Bazin (la connaturata predisposizione delle immagini fotografiche a imbalsamare il reale, sottraendolo all’azione disgregatrice del tempo), ci mostra – anche nel suo fallire, nel suo esaurirsi – la preziosa e fondamentale capacità originaria dell’occhio del (suo) cinema, nel riportarci l’immagine – e il relativo immaginario – di un mondo che diversamente non esisterebbe (più): fissare per sempre sulle lastre del tempo quei piccoli soggetti sull’enormità dello sfondo (il montaggio a ritroso sulla galleria di personaggi ritratti dalla camera di Lucas), altrimenti destinati a scomparire per sempre nella vastità immortale del paesaggio.
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