Gli Stati Uniti contro Billie Holiday sembrava il film perfetto per un regista come Lee Daniels: il regista di Precious(2009) e The Butler (2013) ha fatto sua una storia di razzismo e scontro con le autorità come la travagliata esistenza di Billie Holiday.
E senz’altro Lee Daniels ha fatto sua la causa civile che la figura di Billie Holiday porta inevitabilmente con sé: peccato che, nel farlo, si sia perso per strada il film.
LA STORIA (CONFUSA E SUPERCIFIALE) DI LADY DAY
Con il pretesto di un’intervista del 1957 (un superfluo espediente narrativo di cui la narrazione si dimentica ben presto), il lungometraggio percorre alcuni anni salienti della carriera e della vita di Lady Day, segnati dalla persecuzione da parte del governo degli Stati Uniti, preoccupato per la carica rivoluzionaria di Strange fruit – canzone di protesta contro i linciaggi perpetrati nei confronti della popolazione afroamericana –, cui segue un arresto e una vita tenuta sotto stretta osservazione da parte dell’FBI.
Qui si può già riscontrare uno dei problemi più grandi del film: la sua scansione temporale. La scelta di coprire un ampio arco di tempo è un azzardo nel genere biopic, perché il rischio di trattare in modo superficiale i singoli momenti a favore del quadro generale – togliendo così spessore a entrambi – è sempre dietro l’angolo. Il film purtroppo non sfugge a questa trattazione superficiale: nonostante il tentativo di collegare tra loro le varie e numerose sottotrame – la dipendenza dalla droga e dai mariti violenti, la persecuzione da parte dell’FBI, il rapporto con il tormentato agente Jimmy Fletcher –nessuna lascia veramente il segno, perché tutte sono trattate come se fossero la trama principale mentre nessuna lo è veramente. Soprattutto c’è poca consequenzialità nel comportamento dei personaggi secondari, che cambiano motivazioni e rapporti da una scena all’altra senza una reale ragione – o meglio, le ragioni vengono spesso trascurate o espresse in forma di spiegoni.
STRANGE FRUIT
Ma non è tutta colpa della sceneggiatura di Suzan-Lori Parks; la regia di Lee Daniels appare – con poche eccezioni –sbilanciata tra intensa partecipazione emotiva e tentativo di restare distaccata: il risultato è la mancanza di una direzione precisa, di un punto di vista univoco. Questo è evidente anche nelle scene musicali, dirette e montate senza guizzi e per la maggior parte insignificanti ai fini del senso della storia. L’idea di una musica capace di smuovere le coscienze rimane questo: un’idea, spesso vagheggiata ma raramente messa in pratica in modo convinto all’interno della storia. Alla complessiva mediocrità della messa in scena la regia prova malamente a compensare con scelte artistiche bizzarre o fuori luogo – improvvise accelerazioni della velocità, ingiustificate inquadrature in bianco e nero.
Per tutto il film restano costantemente di buon livello la fotografia di Andrew Dunn e i costumi di Paolo Nieddu, ma soprattutto l’ottima prova di Andra Day (nonostante il monocorde doppiaggio italiano di Alessia Amendola), imprigionata in un ruolo con poco spessore ma meritatamente candidata all’Oscar come migliore attrice protagonista nel 2021 – nonché autrice, insieme a Raphael Saadiq, della canzone originale Tigress & Tweed presente nella soundtrack del film. Tutto il resto del film, dalla regia alle interpretazioni secondarie – compreso uno spaesato Trevante Rhodes e un monotono Garrett Hedlund – è molto al di sotto delle capacità di tutte le persone coinvolte, non tanto per mancanza di passione nei confronti del soggetto quanto per una perenne indecisione e confusione nella trattazione dello stesso; non a caso, i momenti migliori del film sono quelli in cui si libera dalle trappole delle convenzioni dei biopic e punta tutto sulla rabbia nei confronti della situazione sociale descritta. Spicca in particolare la lunga sequenza onirica che ripercorre l’infanzia di Billie Holiday e prosegue con il ritrovamento casuale di una famiglia afroamericana distrutta dai suprematisti bianchi: la visione allucinata di un’America da incubo, dell’orrore del suprematismo bianco sempre dietro l’angolo e della disperazione di un’anima tormentata fin dall’infanzia. Una sequenza che lascia a bocca aperta, diretta e interpretata benissimo, di tale efficacia, rabbia e potenza espressiva da far notare ancora di più queste clamorose assenze per tutto il resto del film.
UN BIOPIC DELUDENTE
Ed è quindi un vero peccato dover constatare che Gli Stati Uniti contro Billie Holiday sia probabilmente uno dei peggiori biopic di recente memoria: un guscio esteticamente interessante ma vuoto e noioso a causa del suo ritmo discontinuo; un film incapace di rendere giustizia non solo alla persona di cui, nel tentativo di offrirne un ritratto imparziale, vengono mostrati soprattutto i vizi e ben poco di ciò che la rendeva così speciale, ma anche e soprattutto all’indignazione civile che muove il film nei confronti del razzismo sistemico di ieri e di oggi.
Questo articolo è stato scritto da:
“se vogliono sapere qualcosa su Billie parlassero con me”, questa una frase che esce dalla bocca doppiata del marito della Holiday.
Complimenti per il doppiaggio con le inflessioni meridionali!!! SI dice PARLINO con me, non PARLASSERO che diamine!