Siamo in Irlanda, nel 1923, in una modesta comunità agreste sull’isola di Inisherin, arcaico rifugio al largo del corso della Storia e al riparo dai rimbombi di esplosioni e cannoni che giungono ovattati dalla terraferma, in una nazione martoriata dalle ultime offensive della guerra civile. Pádraic (Colin Farrell), al rintocco della campana delle due, invita il più anziano amico e compagno di bevute Colm (Brendan Gleeson) a raggiungerlo all’unico pub nel raggio di miglia, per la solita pinta pomeridiana in compagnia dopo il lavoro al pascolo coi buoi. Colm, uomo prostrato dal grigiore della vita sull’isola, che coltiva la passione della musica e del violino in cerca di più alte aspirazioni, si trincera paralizzato dietro un immotivato silenzio, decidendo di troncare all’istante ogni rapporto con Pádraic: l’amico non gli va più a genio, nulla più vuole saperne di quell’uomo che d’un tratto reputa mediocre e noioso, e minaccia addirittura di tagliarsi una a una le dita delle mani se Pádraic non rispetterà la sua irremovibile volontà di stargli alla larga. È l’inizio di una bislacca e sempre più drammatica, sottile ma aguzza tenzone psicologica rilanciata da uno scorrere di mosse nervose e azioni premeditate, scontri aperti e tentate riconciliazioni, furiose esplosioni di rabbia e inattesi slanci di generosità, in un prosieguo di confronti sbalestrati e azzardate schermaglie avvelenate che stravolgerà imprevedibilmente l’apatica monotonia esistenziale dei due (ex) compari.
Sono di una semplicità disarmante, l’innesco di partenza e la struttura portante di Gli spiriti dell’isola (The Banshees of Inisherin, 2022) di Martin McDonagh (in concorso alla 79ª Mostra del Cinema di Venezia – dove ha incassato il premio alla miglior sceneggiatura – e con tre Golden Globes all’attivo, in attesa di giocarsi le nove nomination alla Notte degli Oscar 2023), ed è sorprendente come da un’impasse diegeticamente improduttiva e (di)chiara(ta)mente antinarrativa, da esigui frammenti di vita isolana (e isolata) di così prosaica e quotidiana banalità, scaturisca repentinamente, con sconvolgente naturalezza pari solo alla brillante e affilata precisione della scrittura, un chirurgico e impietoso congegno drammaturgico che riesce a scavare a fondo – grazie soprattutto alla sommessa grandezza dei due magnifici interpreti: granitico e incombente Gleeson, pavido e stropicciato Farrell – nelle pieghe di una profonda, speculare e irriscattabile alienazione, che vede emergere e cozzare tra loro le ragioni (?) più intime e nobili come le più rozze e mal riposte, i sentimenti meno ammissibili e più contrastanti, i più candidi e infantili bisogni d’amore e pacificazione e le spinte autodistruttive più impensabili e irrazionali.
Si arriva fino all’assurdo pur di scongiurare, o almeno tamponare in qualche modo, il desolante senso di vuoto che cinge i personaggi, quelle latenti e aleggianti pulsioni di morte che li insidiano e li sferzano come venti di tregenda, nella lenta, appartata e in fondo futile agonia routinaria di Colm e Pádraic, che avvicinano un destino vertiginosamente sospeso sullo strapiombo del nulla, ed esposto all’erosione delle coscienze, come fosse pericolosamente affacciato sulle maestose e ripidissime scogliere delle Aran Islands.
IL CIELO (SCURO) D’IRLANDA
Dopo la suggestiva trasferta nel neo-noir fiammingo di In Bruges – La coscienza dell’assassino (2008) – da cui è prelevata di peso, e venata di ulteriore immalinconimento, la prodigiosa alchimia e la sapida instabilità del composto attoriale Farrell – Gleeson -, e le due diverse incursioni hollywoodiane (il patinato e fumettoso metacinema pulp di 7 psicopatici (2012) e il notevole south–western di epica suburbana e nuove umanità di frontiera Tre Manifesti a Ebbing Missouri, 2017), Martin McDonagh torna alle origini e alle radici della sua terra di provenienza (la casa dei genitori è situata poco lontano dal set del film), concludendo al cinema con The Banshees of Inisherin il terzo ideale pannello della sua Trilogia delle isole Aran, a seguito delle pièce teatrali di notevole successo Lo storpio di Inishmaan (The Cripple of of Inishmaan, 1996) e Il tenente di Inishmore (The Lieutenant of Inishmore, 2001).
Si tratta con ogni evidenza del suo film più sentito e personale, il più stilisticamente pulito, maturo, coerente e compiuto. Un ammirevole lavoro in equilibrio tra sottrazione e penetrante potenza di sguardo che nell’ampiezza del quadro e nella concretezza di dettagli coglie immediatamente la sostanza di un preciso mondo antropologico setacciato nelle sue arrovellate dinamiche interne. Nei rimandi tra il dialogare caustico e abrasivo e il soverchiante accerchiamento di un paesaggio immenso dagli echi misterici, la narrazione densifica e ispessice di verità ridicole e di dolenti contraddizioni umane il reticolo di relazioni spezzate dalla trama e intrecciate all’allegoria storica e politica con la trasparenza di toni mai caricati (la follia cronica e irreversibile dei conflitti intestini, l’eterno ritorno alla condanna dei troubles tra repubblicani e lealisti irlandesi sul patrio suolo).
In una al contempo terragna, evocativa e simbolica ricostruzione ambientale di grande pregnanza e atmosfere sapientemente sfumate nel folklore locale (è forse l’anziana signora McCormick la stregonesca banshee che attende i pellegrini sulla strada, sorveglia i destini e presagisce segnali funesti, protetta dal suo mantello come una beffarda morte bergmaniana?), che trova nell’ostico, aspro e ruvido isolamento del paesaggio insulare irlandese il correlativo del duro e inconciliabile ripiegamento interiore, dello scivolamento nella reclusione più solitaria che arriva ad intaccare e corrodere l’equilibrio dei personaggi.
L’EPICA DEI DUELLANTI DA PUB
McDonagh dispone un’ipnotica e avvincente successione di tempi, temi e snodi narrativi aperti all’ambivalente e all’imponderabile, facendo calare sontuosamente, nei momenti nodali, una lenta, smorzata eppure pesantissima tensione che lavora pazientemente ai fianchi i corpi e i caratteri, dominati dal conflitto di austeri controcampi e primi piani nitidi e solenni che rafforzano valenza e nettezza delle opposizioni, il duello delle distanze prossemiche e l’elastico della continua dissoluzione – ritrattazione del legame di Colm e Pádraic, richiamando risonanze mitiche (quasi che i due fossero bizzosi, irosi e piagnucolosi titani ubriaconi rimpiccioliti sullo sfondo della natura imperiosa), conferendo ai due contendenti un’emblematica imponenza sminuita di figure archetipiche da parabola biblica deragliata, con l’irruzione della violenza fratricida nella bonomia dell’animo mite e nella quiete apparente di un paesaggio bucolico in realtà cupo e frastagliato di ombre.
Dentro parentesi raccolte e introspettive ma nondimeno intense, feroci e vibranti, equamente scisse tra il senso fisico e istintuale racchiuso nei gesti-limite (incarnati da Colm) e il piglio delle riflessioni di bassa e pigra filosofia di vita che angustiano l’inetto e debole Pádraic (quasi ogni scena chiave del film è un confronto dialogico, verbale o confessionale tra due personaggi su sponde dialettiche opposte e incompatibili). A parte la fiera e intelligente caratterizzazione di Siobhán, la sorella di Pádraic (una splendida e combattiva Kerry Condon al centro di un sanguigno e tenace percorso di autentica emancipazione, senza alcuna riverenza di maniera alle quote di metoo-cinema), non c’è alcun personaggio davvero positivo e disponibile alla facile pietà e all’empatia a buon mercato dello spettatore. Anche la spavalda ingenuità dell’eccentrico e rozzo fool del villaggio Dominic (un Barry Keoghan marginale, ma decisamente in parte con quegli occhi guizzanti e l’imprendibile faccia da schiaffi) riporta una volta di più la fragile e vulnerabile tenerezza, la malinconia inconsolabile delle illusioni irrealizzabili e pertanto destinate ad estinguersi tragicamente.
McDonagh dispiega e dilata fino alle estreme conseguenze un crudo impianto drammaturgico ingessato in un sardonico ghigno nichilista e intriso di co(s)mico pessimismo umano – sinistramente innervato dallo zoppicare insinuante dello score coeniano di Carter Burwell, sospeso tra suoni crepuscolari e funerei come una processione notturna sui ciottoli -, che significativamente si adagia sull’inerzia incorreggibile e sull’inedia immobile di personaggi ridicoli, patetici e indifesi o impropriamente superbi e velleitari, che abitano faticosamente un mondo sperduto di piccole e grandi ambizioni, attività, svaghi e rituali immutabili, collocati al di fuori del Tempo e della Storia eppure vivamente e dolorosamente presenti nel riportarne su di sé, e incarnarne incisi sulla propria pelle, gli echi, le storture, i tagli, le ferite e le malattie (del Secolo).
Il regista sta seduto a osservare curioso, a distanza imparziale pur se attaccato ai personaggi, divertito e impassibile, senza accessi gridati – proprio come le banshees irriverenti richiamate da Colm, che hanno smesso di urlare i propri ammonimenti, annoiate dalle sorti umane sempre uguali a se stesse – questo spettacolo di varia e tribolata umanità vanamente impegnata a produrre uno scarto dal torpore annichilente che la opprime, in cerca di una libertà possibile nella dimensione di elevazione spirituale garantita (?) dall’immortalità della creazione artistica (è anche, in filigrana, il gesto poetico, stilistico e politico preso in carico da McDonagh), che potrebbe riscattare la noia respirata come l’aria e l’irrilevanza di minuscole vite gentili ma inutili, destinate a essere dimenticate per sempre (è l’arco narrativo accarezzato da Colm nelle corde del suo violino, componendo i tre atti della ballad che dà il titolo (originale) al film).
Gli spiriti dell’isola segue così l’ansiogeno zigzagare dei moti di incoscienza e l’emotività pendolare dei suoi personaggi oscillanti e insoluti. Perlustrandone gli scatti e le pause, le intemperanze infiammate (un altro ribelle incendio catartico che segna l’acme dello scontro nemici-amici, dopo quello che in Tre manifesti a Ebbing, Missouri Mildred Hayes appiccava alla incontestabile Legge della stazione di polizia) e le tregue provvisorie, senza mai forzare la mano del plot in direzione della scena ad effetto, del twist decisivo e del climax terminale ad ogni costo.
Aspettando semplicemente che premesse, rivendicazioni, dichiarazioni e velati avvertimenti di una contesa prorogata facciano il loro irresoluto corso incanalandosi nell’eterno, incompiuto e sempre rinnovato gioco incomprensibile dei duellanti per scelta, destinato a non esaurirsi e a riproporsi ciclicamente, come un’alta o bassa marea che bagna la spiaggia da cui si contempla un orizzonte di fuga impossibile. Certe cose non si superano, e va bene così. Lo dice Pádraic, come un’epigrafe e un epitaffio della lotta perenne e inesausta dell’homo homini lupus delle terre d’Irlanda che condivide il focolare con la docile asinella: «Some things there’s no movin’ on from. And I think that’s a good thing».
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