Di nuovo Savannah (Georgia), di nuovo un giovane giornalista, di nuovo un processo per omicidio: 27 anni dopo Mezzanotte nel giardino del bene e del male (1997) Clint Eastwood torna a immergersi nei corridoi dei tribunali della contea di Chatham, sicuramente non per errore o coincidenza, per trovarli profondamente cambiati.
Se nel ’97 Savannah diventava rappresentazione impietosa di una società (americana) ipocrita bigotta e intrisa di pregiudizio, ma che comunque rimaneva una collettività forte e solidamente arroccata dietro ai propri valori – anche se disfunzionali – nel 2024 è specchio della disgregazione totale di qualsiasi senso comunitario a stelle e strisce.
Nel racconto della vicenda di Justin Kemp, membro della giuria scelta per emettere un verdetto su un crimine che lui stesso ha commesso, si possono ritrovare tutti i temi fondamentali dell’ultimo periodo artistico del regista di San Francisco: partendo da American Sniper (2014), passando per Sully (2016) e arrivando fino a Richard Jewell (2019) il ritratto eastwoodiano degli Stati Uniti contemporanei è decisamente a tinte scure. Personaggi che tradiscono la propria Nazione e altri che ne vengono traditi, americani che devono guardarsi con sospetto da altri americani, istituzioni sbilenche che hanno perso di vista il loro compito, una comunità ormai allo sbando.
Non è un caso, dunque, che gran parte degli ultimi progetti di Eastwood metta al centro del proprio racconto processi contro innocenti: il Sully di Tom Hanks e il Richard Jewell di Paul Walter Hauser incarnavano perfettamente l’eroe ordinario e comune, baluardo di un senso civico ormai smarrito e per questo braccato, messo alla gogna e bistrattato dalla stessa comunità che ha strenuamente tentato di proteggere. In questo senso Giurato Numero 2 prosegue in maniera coerente questo percorso, ribaltando però diametralmente il punto di vista e ponendo al centro del ragionamento il persecutore e non più il perseguitato, l’istituzione e non più il cittadino.
Il film si apre con una metafora esplicativa del concetto di giustizia secondo Eastwood: una donna bendata viene condotta e guidata da un uomo. In parafrasi: la Legge, in teoria un concetto assoluto, emanazione ultima e perfetta della Giustizia, viene amministrata e applicata da soggetti imperfetti che insieme costituiscono istituzioni imperfette. Già qui un primo attacco al sistema giudiziario statunitense – il quale viene messo in scena in maniera inaspettatamente tecnica – ma che rivela alcune lacune strutturali piuttosto importanti, partendo dal ribaltamento tra prova d’innocenza e prova di colpevolezza (l’imputato spesso deve dimostrarsi innocente oltre ogni ragionevole dubbio piuttosto che essere provato sicuramente colpevole), passando per le indagini a senso unico, coadiuvate da testimonianze spesso pilotate, fino ad arrivare alla composizione di una giuria popolare molto spesso influenzata dalla singola esperienza personale e difficilmente obiettiva.
Non casualmente il film, nella sua parte centrale, cita in maniera eloquente La Parola ai Giurati (1957), di nuovo con l’intento di mettere a confronto la società contemporanea con quella del passato: laddove l’Henry Fonda di Lumet era mosso nelle sue rimostranze e nei suoi dubbi da un profondo senso civico e da una sincera compassione umana, il Nicholas Hoult di Eastwood tenta di mascherare il proprio senso di colpa con una parvenza di sensibilità morale. Al contrario del capolavoro del ’57, però, in questo film per l’innocente non esiste via di scampo, volontariamente sacrificato sia dalla comunità – i giurati, perlopiù disinteressati e smaniosi di tornare alle proprie occupazioni – che dalle istituzioni, rappresentate dall’aspirante procuratrice Killebrew (Toni Colette), la cui carriera dipende interamente dalla condanna dell’imputato e che, nonostante venuta a conoscenza della verità, sceglierà di non rivelare la non colpevolezza del presunto assassino. Troppo alta la posta in gioco, troppo da perdere.
Secondo Eastwood, dunque, il nemico non si trova più dall’altra parte del mondo, ma vive in americanissime case middle-class, guida l’autobus, vive in una roulotte affianco a un ponte, ascolta podcast true crime, studia medicina o è un padre di famiglia; dall’eroe ordinario all’anti-eroe ordinario, dalla difesa strenua della comunità e delle istituzioni fino alla strumentalizzazione delle stessa per fini individualistici, oltre ogni ragionevole rimorso: il triste fallimento statunitense nella visione eastwoodiana.
Non per questo, però, Justin Kemp è un mostro: l’occhio del regista non è mai giudicante nei confronti del suo protagonista, il quale prova un sincero senso di colpa per ciò che ha commesso, che – probabilmente – lo accompagnerà per il resto della vita. Non è prevista, però, la possibilità, né la volontà di liberarsi da questo fardello: al giovane giurato si presentano diverse occasioni per riscattarsi moralmente, per fare ciò che è giusto, ma il concetto di giustizia viene piegato, deformato, abbandonando canoni assoluti e trasformandosi in concezione relativa. In altre parole, ciò che è giusto per la vita e l’esistenza di Justin e della sua cerchia ristretta è significativamente più giusto di ciò che lo è in senso assoluto. Qualche volta la verità non è giustizia verrà sentenziato alla fine del racconto.
Questo personaggio, dunque, reso lucido specchio di ogni spettatore, verrà guardato negli occhi nel finale: il gesto di guardare negli occhi un essere umano per scoprirne l’anima è dettaglio non trascurabile in questo film, perché abbandonate le sovrastrutture sociali e giuridiche – la Dea è bendata – è negli occhi che si cela la verità. Ciò lascerà in sospeso grandissimi dilemmi morali: in una società senza più eroi, che ruolo può avere un individuo? Giustizia ad ogni costo oppure semplice mors tua vita mea? Per un film che pone più domande (molte) rispetto alle risposte che da (poche), chiuso da un finale che costringe a guardare in faccia sé stessi e a trovare una lettura intima, interpretazioni personali di interrogativi universali.
Se, come appare verosimile, Giurato Numero 2 sarà la chiosa della carriera di Eastwood, l’inquadratura finale sarà testamento perfetto per un cinema che ha spesso guardato negli occhi – e nell’anima – dell’essere umano, in un processo senza appello.
Oltre ogni ragionevole dubbio.
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