Il respiro regolare e profondo di una persona. Il buio e poi la luce rossastra che illumina qualcosa che ancora non riusciamo del tutto a decifrare. Altre inquadrature che, lentamente, svelano il segreto di ciò che stiamo vedendo: un volto umano, più nello specifico il volto di una donna addormentata. L’ultima inquadratura ci porta su un occhio. Il suono di una sveglia interrompe questo momento di quiete, uno dei pochi all’interno del film: l’occhio si apre, il respiro della dormiente diventa quasi immediatamente impercettibile.

La prima scena del nuovo film del regista Eric Gravel, Full Time – Al cento per cento, ha già al proprio interno molti degli elementi che ci accompagneranno per il resto della sua (breve) durata. La pellicola è stata presentata lo scorso settembre al Festival del Cinema di Venezia nella sezione Orizzonti, dedicata a “film rappresentativi di nuove tendenze estetiche ed espressive” (citazione dal sito della Biennale). In quest’occasione ha vinto il premio alla regia e il premio per la migliore attrice, assegnato alla protagonista, Laure Calamy.

In Full Time (in originale À plein temps, “A tempo pieno”, espressione che rende molto meglio l’esperienza del film) Calamy interpreta Julie, una donna divorziata e con due figli. Con Julie, pendolare tra la sua casa di campagna e il lavoro nella capitale francese, viviamo una settimana (più due giorni) infernale, durante uno sciopero nazionale che paralizza Parigi e dintorni. Sciopero che, curiosamente, noi spettatori non vedremo mai nelle sue conseguenze più brutali: proprio come la protagonista, il nostro vissuto delle proteste sconvolgono la capitale passa semplicemente attraverso un telegiornale ascoltato distrattamente o un bollettino radio (il sonoro gioca un ruolo importante nel film proprio per questo motivo). Quello che ci interessa sono le conseguenze di questi avvenimenti, ovvero il malessere causato alla folla di pendolari, Julie compresa. Un espediente ingegnoso ma nato dalla necessità. Il film, infatti, è stato girato tra i due lockdown del 2020 (le riprese sono finite poi ufficialmente a febbraio 2021): filmare scene di massa sarebbe stato incredibilmente difficile. 

Una delle caratteristiche da segnalare è certamente la brevità di Full time: nonostante dagli inizi del cinema la durata di una pellicola sia considerata segnale di alta qualità (basti pensare che ai tempi del muto il lungometraggio in Italia era quasi completamente appannaggio dei film in costume) è giusto riconoscere che forse uno dei pregi di un buon film è sapere quando fermarsi e come occupare il proprio metraggio. Full time, pur arrivando a fatica all’ora e mezza, non manca di nulla. Allo stesso tempo, proprio per la sua brevità, tutto ciò che è presente nel film è perfettamente funzionale allo svolgimento della vicenda. Anche i tempi sono perfettamente bilanciati per una storia che, in fondo, parla proprio di mancanza di tempo: una durata maggiore avrebbe diluito inutilmente gli episodi del film. Gli unici momenti in cui il ritmo diventa più pacato sono quelli in cui la protagonista è da sola in casa o coi suoi figli. Tuttavia, neanche queste brevi occasioni sono serene: la tensione accumulata nelle sezioni precedenti continua a incombere sulla protagonista (e su di noi), e anche i momenti più tranquilli possono essere turbati.  

Come già detto, la scena iniziale getta già le fondamenta di ciò che vedremo per il resto del film: Julie è sempre il centro della vicenda, l’unico personaggio che seguiamo. La macchina da presa, inoltre, è continuamente vicina al suo viso o alla sua nuca. L’uso della staedy cam nelle scene più concitate, durante le quali spesso la camera è posizionata davanti o alle spalle della protagonista, crea un effetto tremolante che restituisce anche allo spettatore il senso della fretta e della concitazione.

La performance attoriale di Calamy è dunque fondamentale per la riuscita del film, in quanto regge l’intero peso della storia sulle sue spalle: il suo viso pensoso e segnato dai primi segni dell’età è onnipresente. L’attrice, fortunatamente, riesce perfettamente a canalizzare le diverse “maschere” che la protagonista deve assumere durante la settimana (madre, dipendente, donna in carriera), maschere che lentamente cominciano a disgregarsi sotto il peso dello stress. 

Le sfide che Julie è costretta ad affrontare procedono in un’escalation sempre più intensa, a cui la donna deve rispondere con soluzioni sempre più estreme, fantasiose e umilianti. Tutto per riuscire a bilanciare la sua vita di lavoratrice e di madre. Una settimana di assoluta quotidianità diventa così una letterale corsa per la sopravvivenza, visto che la situazione degenera ben presto arrivando a colpire la sicurezza finanziaria di Julie e dei suoi figli. Così il film diventa anche una critica al sistema lavorativo attuale basato sul burn out e sul sacrificio del proprio benessere psico-fisico per riuscire a supportare sé stessi e i propri cari. 

Il lavoro di Julie, tra l’altro, non risponde alle sue capacità attuali: la donna, infatti, ha diversi titoli di studio, ma ha dovuto abbandonare la carriera per badare ai figli. Un’ennesima stilettata al sistema lavorativo che non solo spesso non premia la preparazione di un dipendente (soprattutto di un giovane), ma che spesso tende anche a considerare non degne di un impiego le donne con figli. Interessante notare comunque come, al contrario, la responsabilità dei bambini non ricada mai sul padre ed ex marito di Julie, che non si vede mai per tutto il film e non si prende mai cura delle creature che ha messo al mondo, neppure attraverso gli alimenti.

Non solo: il lavoro e i sacrifici a cui Julie è costretta le impediscono di stare coi suoi bambini, obbligandola a stare fuori casa per giornate intere. Dunque Julie fallisce come lavoratrice perché nel tentativo di ottenere un lavoro migliore non riesce in quello attuale e, all’apparenza, fallisce anche come madre: in una società in cui alle donne viene fatta pressione per bilanciare lavoro e famiglia, fallire in questi due campi potrebbe portare a un’ingiusta messa in discussione del proprio valore personale.

Full Time racconta, con la regia e l’impianto di un thriller, la vita di una madre single e pendolare, tra momenti di frenetica accelerazione e rare occasioni di distesa esaustione. Nonostante l’accostamento tra vicenda e genere risulti così fuori luogo, in realtà è tristemente calzante: in un panorama cinematografico di supercattivi venuti da altri universi, la nostra quotidianità è ancora la cosa che può farci più paura. Tutto con la consapevolezza che, dopo la settimana appena passata, ce ne sarà un’altra.

Questo articolo è stato scritto da:

Silvia Strambi, Redattrice