Presentato in concorso alla 76° edizione del Festival di Cannes, Four Daughters di Kaouther Ben Hania, mette in scena la storia di Olfa e delle sue quattro figlie. Raccontando la sparizione delle sorelle maggiori, Rahma e Ghofrane, la regista riflette sui cambiamenti che hanno coinvolto la Tunisia durante la Primavera araba e sulle possibilità del cinema di ricreare il passato per poterlo affrontare.
A colpire è innanzitutto l’impianto generale del progetto: un documentario che non si limita a raccontare gli avvenimenti, ma li ricrea a partire dal racconto di Olfa. A questa premessa si aggiunge però un ulteriore grado di complessità, in quanto saranno solo le due sorelle minori, Eya e Tayssir, ad essere realmente in scena, mentre le maggiori vengono interpretate da due attrici. Anche Olfa è affiancata da un’attrice che la sostituisce in alcune scene, assumendo un ruolo che potrebbe essere definito come quello di una controfigura emotiva.
Avendo acquisito fin da bambina una forte attitudine di contrasto alle figure maschili, Olfa si afferma come una donna, e successivamente una madre, perfettamente consapevole della propria individualità. Ad esempio, durante la prima notte di nozze, non volendo concedersi al marito, fa in modo che sia lui a sanguinare per poter sporcare le lenzuola che serviranno come prova del fatto che fosse arrivata vergine alle nozze. Il personaggio utilizza questa sua individualità per potersi mettere in opposizione alla tendenza maschile dominante che permea il contesto in cui vive: l’attitudine, che lei definisce mascolina, assunta per proteggere la propria madre è ciò che le permette di lasciare, assieme alle figlie, il marito violento.
Dopo questa porzione iniziale che mette Olfa al centro del film, cominciano a definirsi le relazioni tra i cinque membri della famiglia, e lo spettatore assiste al processo in cui i ruoli vengono definiti. Ci troviamo infatti in una vera e propria sessione di preparazione per le donne che interpreteranno Rahma e Ghofrane, le figlie che “sono state divorate dal lupo”. Si arriva così al nucleo di un progetto complesso, originale, affascinante e decisamente ambizioso per la quantità di temi che vuole trattare, dal racconto sociale al dramma familiare, il tutto inserito in una costante riflessione sulle potenzialità del mezzo cinematografico di mescolare realtà e finzione.
Il film si dimostra lucido nei confronti dei temi che affronta e nell’ordine in cui vengono presi in considerazione, riuscendo a costruire una ragnatela di collegamenti che lega le esperienze personali di ogni personaggio ai cambiamenti sociali che ha vissuto il loro Paese, restituendone la natura complessa. Infatti è emblematica la frase pronunciata da Olfa ricordando la rivoluzione che ha portato alla caduta della dittatura di Ben Ali: “erano tempi duri ma almeno eravamo insieme”. Questo perché la fine del regime autoritario ha reso possibile la proliferazione di organizzazioni religiose estremiste che hanno coinvolto proprio Rahma e Ghofrane, una svolta nella vita della famiglia che porta la madre a formulare questo pensiero sincero e profondamente contraddittorio.
Ma Four Daughters è anche un film che si costruisce sul sistema del re-enactment. La regista, infatti, non è solamente interessata a mostrare una storia, ma intende mostrare la preparazione della sua messa in scena, focalizzandosi sull’utilizzo delle attrici. Le attrici che interpretano le sorelle assenti si trovano a dover interiorizzare non dei personaggi, ma delle persone vere e proprie, in un processo di immersione che risulta doloroso per le altre donne, al punto da dover chiedere di interrompere una ripresa, fino a rifiutarsi di rivolgersi a un’attrice mentre indossa il Niqab (il tradizionale velo islamico che copre l’intero corpo della donna, lasciando scoperti solo gli occhi).
La controfigura della madre ha, invece, un ruolo legato al tema del doppio, evidenziato dai numerosi giochi di specchi e sovrapposizioni tra Olfa e l’attrice che la interpreta. Tuttavia, il processo di ri-messa in scena di questi eventi permette anche di riflettere su ciò che è accaduto, in una sorta di autoanalisi in cui è possibile fare un resoconto delle scelte prese nel corso degli anni e che potrebbero essere collegate al dramma che ha colpito la famiglia. In questo senso c’è una soluzione interessante adottata da Ben Hania che sottolinea con forza questo aspetto. Quando l’attrice recita nei panni di Olfa, vediamo spesso la vera Olfa sullo sfondo mentre osserva la scena, diventando così una presenza fantasmatica che ha la possibilità di rivedere ciò che le è accaduto da un punto di vista alternativo, prendendo coscienza dei propri comportamenti. La donna arriverà a riconoscere che parte del problema è stato proprio il suo istinto di protezione verso le figlie, un istinto che però viene interpretato positivamente quando lo assume da bambina per proteggere la madre.
Ecco che quindi al di là di un impianto teorico estremamente complesso, che talvolta rischia di essere vittima della sua stessa ambizione rendendo il film non sempre fluido, il film di Ben Hania è ammaliante e preciso in diversi aspetti, raccontando, a partire da una vicenda individuale, una realtà che in occidente viene fin troppo spesso ridotta e semplificata. La regista esalta la complessità di questa realtà concentrandosi sull’ambiguità e le contraddizioni dei suoi protagonisti, riuscendo a mantenere uno sguardo interessato ma distaccato, senza mai cadere in un superficiale dualismo che vede i buoni contrapposti ai cattivi, alimentando anzi i dubbi.
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