Avevamo lasciato l’imbattibile dream team degli agenti speciali in auto da corsa, o per meglio dire l’onorata (Sacra) Famiglia Toretto, al termine di Fast & Furious 9 (2021), in preghiera nel consueto barbecue della vittoria. Tra secchiellate di Corona in ghiaccio, l’orgoglio rigonfio d’amore per i pargoli (il piccolo Brian Toretto, che ritroviamo cresciuto a pane, NOS e fede nelle paterne lezioni di drifting), l’amicizia virile e la fratellanza della famiglia allargata lubrificate e rimesse a nuovo tra battute gradasse, onnipresenti croci al collo e pompatissime massime esistenziali.
Salud, mi familia!
E proprio dalla stessa, ennesima reunion familiare in giardino sotto il sole californiano (in cui spunta un’inedita e ingioiellata nonna Abuelita Toretto, per gentile concessione al cameo di una leggenda latina come Rita Moreno), riparte anche il nuovo, attesissimo capitolo della Fast Saga, FAST X di Louis Leterrier. Non prima del puntiglioso incipit che fa da recap narrativo e bottone di restart della continuity, rivisitando immagini ed eventi finali dell’insuperato Fast Five (2011), da cui si tira fuori a sorpresa l’euforico e psicotico villain Dante Reyes (un camaleontico Jason Momoa, che gigioneggia sopra le righe senza tregua): figlio deviato, opulento e rancoroso del losco Hernan Reyes a cui la scuderia Toretto al gran completo sottrasse da sotto il naso – e gli schiantò mortalmente in testa – un caveau metallico imbottito di cento milioni di dollari. In cerca della vendetta covata per lunghi anni, il buon Reyes si impadronisce così del futuristico arsenale bellico della rediviva Cipher (Charlize Theron), per scatenare la sua ira contro la family Toretto, attirata in trappola in una finta missione CIA tra le vestigia romane, in attesa di giocare al gatto col topo con l’odiato Dominic, che intende colpire negli affetti più cari, per vedersi saldare con gli interessi l’enorme “debito di sofferenza” patito.
Fast-ten your seatbelts
Ne ha fatta di strada, la Fast Saga, dalle origini clandestine nel lontano 2001 al suo terzo decennio in pista da blockbuster totale. Inimmaginabile mastodonte di spettacolarità action sempre più avanzata e visionaria, con un unico e possibile paragone nel franchise di Mission Impossible, che quasi simultaneamente gli corre accanto, in una strenua e folle gara al reciproco e continuo sorpasso nella costruzione vertiginosa di una scena capitale di impatto enorme – la scena, quella definitiva – che possa alzare ogni volta l’asticella dei limiti consentiti dalle leggi fisiche, terrene, divine e cinematografiche. Si va in sala per questa ragione (e per l’amore incondizionato, non negoziabile, per LA FAMIGLIA – il maiuscolo è d’obbligo -), senza pretendere i conflitti di Dostoevskij o una benché minima parvenza di coerenza e verosimiglianza. Questo, l’estrema e inaudita azione volante allo stato puro, il motivo irrinunciabile che spinge a turarsi il naso e passare oltre l’infantilismo delle psicologie schematiche, le trame puerili e inverosimili come in un ciclopico autoscontro di indistruttibili MicroMachines e immortali action figures muscolari, la congenita tamarraggine a pieni giri, al fianco della monolitica presenza infrangibile un Vin Diesel ormai assunto allo stato deistico di onnipotenza supereroica, che viaggia spedito in Dodge Charger verso il martirio cristiano, come un eroe del Valhalla al volante di quattro ruote in fiamme.
Solo parti non originali
Ecco però che, se c’è un limite che questo decimo capitolo denuncia in maniera lampante – di cui già si aveva un sentore nel poco entusiasmante Fast 9 -, sta proprio in un’innegabile stanchezza programmatica nella conduzione di snodi e scene madri dell’impianto action, che sembrano ormai accumularsi a intervalli regolati col pilota automatico: meccaniche apocalissi di lamiere accartocciate, salti ed esplosioni di routine (al netto di stunt, comparto tecnico e fotorealismo effettistico sempre d’eccellenza). Un motore visivo e narrativo ormai palesemente ingolfato perché spinto (forse) alla massima saturazione, al raggiunto esaurimento di spazi di frontiera da conquistare, in un deficit di ispirazione e di concept strutturale che ha fiato corto e serbatoi vuoti di idee, e che per sua natura non può davvero svoltare e ricalibrarsi se non nell’incessante iterazione sproporzionata della formula base, ingigantita a dismisura quanto ormai paradossalmente inerte e sfinente, al netto del proverbiale e inquieto girotondo alternato di location. A questo giro tocca alla nostra Italia, con la fantasiosa e godibile topografia cittadina che incastra insieme i set di Roma e Torino, e consente a un Toretto a briglie sciolte – nel caos impazzante dell’Urbe – un poderoso e ignorantissimo scavallamento in retromarcia giù dai gradini di Trinità dei Monti, con conseguente palla-bomba di metallo rotolante che in un tonfo fragoroso sbriciola nientemeno che la Fontana della Barcaccia, tripudio gratuito di fracassona iconoclastia Usa così sfacciatamente incurante che non si può non amare all’istante.
L’ultimo quarto di miglio
In attesa che venga scritta la parola fine all’epopea di Toretto & co., siamo di fronte a un capitolo incerto, involuto e interlocutorio, col pedale dell’acceleratore che riesce a rombare solo a sprazzi ma resta in fondo bloccato a metà, più impantanato del solito nei quadretti di familismo stucchevole, che qui come non mai accorpano davvero troppi, ingiustificati minuti. Pur gettato a rotto di collo nel mezzo di un’autostrada della tensione e dell’avventura high-tech sempre rincorsa a tavoletta, la sensazione è che l’appeal tonitruante del brand Fast & Furious ne esca appannato, sintetizzato in una resa più artefatta, orfano di autentica emozione e un po’ grossolanamente disperso proprio in quella che dovrebbe essere la sua smagliante corazzata visiva da battaglia: il gesto coreografico e plastico supremo, avveniristico e sperimentale, da consegnare agli annali. Col sospetto che si proceda ormai per inerzia e a rimorchio dei sommi e colossali Fast & Furious moments del passato, le sequenze da hall of fame del fanta-action rimaste nel cuore della fan base. In un attenuato e frustrante effetto déjà vu in tono minore che non riesce più a riproporre il brivido e la potenza delle parti originali. Pesa dannatamente l’assenza di Justin Lin alla regia (colonna portante e vero demiurgo della rinascita della saga, portata nell’Olimpo dell’action iperrealistico filmato dal vivo), chiamatosi fuori dal progetto dopo appena una settimana di riprese (per non meglio precisate divergenze), con il mestierante di lusso Leterrier promosso sul campo che prova a districarsi tra la grandeur produttiva e le secche di una sceneggiatura confusa e latitante (altra deferenza imperdonabile: gli script cesellati di Chris Morgan, ormai un lontano ricordo).
Lo sparpagliamento indiscriminato dei vari archi narrativi agli angoli del globo sortisce l’effetto di sottoutilizzare e penalizzare nettamente i personaggi (il segmento londinese gira totalmente a vuoto, sprecando pure il furore inestinguibile di Deckard Shaw/Jason Statham). E nessuna delle new entry del cast può dirsi davvero valorizzata: Brie Larson nel ruolo di Tess, figlia dello scomparso (?) Mr. Nobody, avrebbe tempra, fascino e il physique du rôle per lasciare il segno, ma è frettolosamente accantonata. E il nuovo capo CIA, Aimes (Alan Ritchson), è niente più che un ottuso e imbambolato cinghialone in balia di plot twist insensati, che fa rimpiangere la spacconeria taurina dell’agente Hobbs di Dwayne Johnson (da recuperare al più presto).
Se si vuole sperare in un’ultima ripartenza degna di nota, prima dell’ineluttabile tramonto, la sfida del futuro di Diesel-Toretto, tutta di permanenza fisica e testarda resistenza meta-cinematografica, dev’essere la stessa di Cruise-Maverick nell’ultimo Top Gun, virata da cloche e propulsori dei caccia a volante e scarico dei bolidi da superstrada: scongiurare l’obsolescenza fuori tempo massimo del supercorpo al timone della macchina che lo ingloba, potenzia e definisce in un tutt’uno con essa. Dimostrare che i tempi in cui un uomo e la sua auto possono fare la differenza, e sopravvivere nell’impero dell’algoritmo tecnologico come arma di distruzione di massa, ancora non sono finiti.

Scrivi un commento