Per chi non avesse aperto Instagram, Twitter o TikTok negli ultimi due mesi, Euphoria è tornata il 17 Gennaio, a ritmo di un episodio alla settimana. Il ritardo dell’uscita dovuto alla pandemia, il binge watching durante i mesi di lockdown e, non ultimo, uno storico Emmy vinto da Zendaya, hanno contribuito a far crescere ulteriormente l’attesa negli ultimi due anni. 

L’adattamento dell’omonima miniserie israeliana, scritto e diretto da Sam Levinson (Assassination Nation, Malcom & Marie), ha confermato l’intento – esplicito – già dall’episodio pilota: far parlare di sé, spingendo più in là i confini del teen drama grazie a quel tipo di libertà che solo la premium tv può permettersi. Il riscontro del pubblico non si è lasciato attendere, e infatti a poco più di una settimana dalla messa in onda del finale, Euphoria è diventato il secondo show HBO più visto di sempre, superato solo da Il Trono di Spade

Fin dall’inizio la serie ha corso anche un grosso rischio: lasciare che l’estetica prendesse il sopravvento sulla scrittura. La sua forma perfetta caratterizzata da make-up glitterati, una colonna sonora eclettica e costumi impeccabili che spaziano dal vintage alle tendenze del momento, funziona quando è al servizio di un impianto narrativo carico di sostanza emotiva. Euphoria al suo meglio è proprio questo, un microcosmo architettato in modo consapevole e preciso ma con un grande cuore pulsante sotto la superficie. In questa seconda stagione, però, è più difficile sentirlo.

Durante la prima stagione siamo entrati tra i corridoi dell’East Highland High School, in una periferia qualunque del Sud della California, una scuola che racchiude traumi e ansie della generazione Z. Nonostante gli eccessi non fossero passati inosservati, il debutto nella serialità di Sam Levinson era riuscito a mettere d’accordo pubblico e critica. 

A riempire il vuoto tra l’uscita della prima e della seconda stagione sono stati due episodi bottiglia, incentrati rispettivamente su Rue e Jules. Trouble Don’t Last Always e F**ck anyone who isn’t a sea blob – quest’ultimo scritto insieme a Hunter Schafer – sono stati pensati come speciali natalizi incentrati sulle due protagoniste, che nell’ultimo episodio si erano lasciate lungo i binari di una stazione. Così, la giostra pop e psichedelica di Euphoria ha dimostrato di saper funzionare anche mettendo in pausa per due ore le provocazioni urlate degli episodi precedenti, dando modo alla sceneggiatura di assicurarsi un ruolo di primo piano.

In questa seconda stagione lo show cerca di ampliare la sua prospettiva, introducendo nuove sottotrame – la relazione clandestina tra Nate e Cassie, le origini della repressione sessuale di Cal – e personaggi – Dominic Fike, il golden boy del nuovo pop mondiale, nei panni del caotico Elliot e Chloe Cherry, vera rivelazione di questa stagione, a interpretare l’involontariamente ironica Faye. È comprensibile quindi la delusione che si genera quando, per lasciare spazio a personaggi non ancora esplorati, si sceglie di abbandonarne altri in archi narrativi stagnanti. Jules e Kat sono sicuramente i personaggi che ne risentono di più, perdendo tutta la rilevanza che avevano avuto nello show fino a questo momento. Jules sembra trovare una ragione d’essere solo in funzione alla crescita delle persone intorno a lei: seguendo prima le oscillazioni di Rue e permettendo poi a Nate di fare un primo timido passo verso la redenzione. Riguardo Kat, lo stesso discorso si amplifica. Il poco screen-time concesso a uno dei personaggi più amati e meglio tratteggiati finora, ha incendiato le tastiere di molti fan, che hanno reclamato come meritasse uno sviluppo migliore rispetto al sabotaggio che le è stato inflitto, e che culmina con un crudele atto di gaslighting nei confronti di Ethan. Le numerose critiche sono dovute proprio a quello che la serie decide di non fare, lavorando per sottrazione su alcuni personaggi e lasciando molte domande senza risposta (che fine ha fatto la valigetta di Rue? Laurie, la spietata spacciatrice, vorrà essere ripagata?). Rue, invece, incarna alla perfezione il rapporto di amore-odio che si può sviluppare nei confronti di Euphoria. Il suo percorso porta sullo schermo l’esperienza personale di Levinson – come dichiarato dallo stesso regista –, ed è segnato da continue ricadute che diventano più difficili da seguire con lo stesso interesse della prima stagione. 

A livello narrativo, il più grande punto di forza è dato dalla presenza, sempre più determinante, di Lexi, che esce dall’ombra del gruppo di amiche per ritagliarsi lo spazio che abbiamo sempre saputo si meritasse. All’interno di un teen drama in cui, tra un’overdose e una sparatoria, i confini del genere tendono a dissolversi, Lexi concede allo spettatore un respiro di sollievo. Proprio quando sembra essere rimasto ben poco della vera essenza dell’adolescenza, si ritrova quel senso di inadeguatezza e di impacciataggine comune ai coming-of-age più sinceri. La sua relazione con Fezco, sebbene ancora agli inizi, è anche l’unica dello show a non sviluppare atteggiamenti tossici e che ci dona alcuni dei dialoghi migliori. Dopo un evidente calo negli episodi centrali della stagione, il momento in cui Lexi mette in scena il meta-musical Our Life, che ci permette di diventare spettatori una seconda volta per assistere agli eventi dalla sua prospettiva di outsider. Proprio qui l’arte torna ad essere centrale assumendo un ruolo salvifico anche nel momento in cui ferisce: del resto “some people need to get their feelings hurt sometimes”. Questo ci fa dimenticare anche il naturale parallelismo con il ruolo da showrunner dello stesso Levinson e l’eccessiva autoreferenzialità che spesso abita le sue opere. 

Visivamente la serie è sempre stata molto densa, arricchita già al suo esordio dal protagonismo della fotografia e da citazioni più o meno evidenti. Se questa volta la fotografia sembra più amalgamata con il racconto, le citazioni si fanno sempre più esplicite e curate, fino a culminare nella sequenza d’amore tra Rue e Jules. Ed è  proprio il primo episodio ad aprirsi su queste note, con un altrettanto esplicito richiamo, questa volta al capolavoro di Martin Scorsese, Quei bravi ragazzi, dove la nonna dalla quale Fezco ha ereditato l’impresa di famiglia è interpretata da Kathrine Narducci (I Soprano, The Irishman). 

Le impeccabili prove attoriali del cast – questa volta spicca l’eccezionale Sydney Sweeney che riesce a dare un volto all’isteria crescente di Cassie – seguono con naturalezza anche gli sviluppi più estremi della trama, arginando i passi falsi della sceneggiatura. Quel che è certo, dopo la conferma del rinnovo per una terza stagione, è che, con un maggior carico di aspettative, ristabilire gli equilibri traballanti di questa seconda stagione dovrà essere l’obiettivo principale. Per riuscirci probabilmente la strada è una sola, non provarci troppo.

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Silvia Alberti, Redattrice