Prendendo in prestito l’impianto narrativo dall’omonimo romanzo di Taichi Yamada, Estranei, nelle mani di Andrew Haigh, si allontana dall’essere un lineare adattamento cinematografico e diventa una sofferta riflessione generazionale -dalle note autobiografiche- sull’omosessualità e sull’elaborazione del lutto, raccontata però con un freddo distacco. Storia d’amore e fantasmi, Estranei alterna i toni del melodramma struggente e del cinema fantastico senza restituire un equilibrio riuscito tra le due parti. 

Non siamo più nella Tokyo degli anni ottanta, ma ci troviamo nella Londra contemporanea. É qui che, in un tetro paesaggio artificiale dall’atmosfera vagamente distopica, si trova l’enorme palazzo dove abita Adam. Una sgraziata struttura che stagliandosi in verticale manifesta una grigia freddezza, corrispettivo oggettivo della condizione esistenziale di quelli che impariamo essere i suoi unici due inquilini. Lui, sceneggiatore per il grande schermo, ha perso ogni contatto con il mondo esterno. Dietro a questo suo isolamento si cela un lutto mai elaborato, una ferita che il passare degli anni non ha rimarginato- può davvero il tempo rimarginare certe ferite? è la domanda leitmotiv che traina la pellicola– la morte dei suoi genitori avvenuta nel fragile momento della pre-adolescenza. Un tragico evento che ha dato forma alla sua vita finendo per sovrapporsi alla sua identità. Rimasto ormai solo, vive da estraneo nella sua stessa esistenza, arreso ad uno stato di apatia che negli anni è diventata la sua più fedele compagna. La stessa sensazione di estraneità ed esclusione abita anche Harry, seducente e misterioso vicino che una sera si presenta alla sua porta. I due si incontrano su un terreno simile di paura e alienazione, basando su questa condivisione la speranza di un riscatto, nel nome del potere dell’amore. Mentre il loro legame si evolve, Adam non sembra essere disposto a rinunciare alle uniche relazioni a cui ha sempre concesso spazio, quelle con i fantasmi del suo passato e il rischio di finire inghiottito dalle sue stesse emozioni si fa sempre più alto.

In questo momento il racconto si sdoppia, proseguendo poi su due binari paralleli, sempre in una dimensione atemporale e onirica sbilanciata più verso il sogno che verso la realtà. 

Da una parte la volontà di esorcizzare la sofferenza attraverso l’atto creativo lo spinge a tornare nel quartiere di periferia dove è cresciuto. I viaggi in treno verso la casa d’infanzia, descritti visivamente come un loop rispetto al quale non ci si può sottrarre, lo accompagnano in un tempo sospeso dove gli è concesso l’impossibile: incontrare i genitori, rimasti incastonati in un eterno 1987. Qui ha luogo un confronto che offre ai personaggi l’occasione di ritrovarsi dove si erano lasciati, per ricucire lembi di vecchie ferite, esplodendo i non detti e le incomprensioni che hanno impedito a quello che allora era solo un bambino di trovare la strada per diventare adulto. Claire Foy e Jamie Bell sono efficaci e a fuoco nel restituire i ritratti rispettivamente delle imperfette e umanissime figure genitoriali ma non vengono sostenuti da una sceneggiatura capace di sostenere l’emotività delle scene.  

Dall’altra, la tensione verso il tentativo di vivere il presente è rappresentata dalla relazione con Harry, alla quale viene concesso uno spazio minore ma più efficace. Il loro rapporto serve, più che ad emancipare Adam dalla depressione, a porre a  confronto due generazioni di persone queer. Essere gay non è più sinonimo di solitudine, come spiega Adam alla madre quando lei reagisce spaventata al suo coming out, ma la stigmatizzazione si è solo placata senza, purtroppo, scomparire del tutto, come conferma la storia di Harry. Haigh attinge qui dalla sua stessa biografia per dare voce ai suoi coetanei: uomini di mezza età, che negli anni della crescita hanno subito un contesto educativo e culturale ostile, per poi assistere alla liberazione portata da un clima di progressismo e tolleranza, potendo finalmente venire a patti con l’accettazione di sé. Un percorso non sempre lineare che difficilmente ha portato alla cancellazione del senso di alienazione. 

A mancare però è uno sguardo realmente tenero e compassionevole che permetta in primo luogo di provare, a chi si addentra nella sofferenza di questa storia, una vera empatia nei confronti dei personaggi. Complice un prologo troppo lungo che rischia di trasformare in noia quella sospensione contemplativa, diventata ormai ingrediente fondamentale per chi vuole confezionare un’opera profonda e solenne.

Andrew Haigh privilegia quindi la resa tecnica, nelle transizioni tra passato e presente, tra mondo dei vivi e dei morti incastrandosi in richiami e citazioni cinefile che contribuiscono a restituirci un risultato freddo e insipido – l’abbraccio finale è ben distante dall’intensità di Mysterious Skin. Estranei è impregnato da sentimenti così intensi che finiscono per soffocare lo spettatore senza neanche concedergli di sperare nel superamento di questo dolore.

Silvia Alberti
Silvia Alberti,
Redattrice.