Menzionato più e più volte nella stagione dei premi ancora in corso, indipendentemente da una distribuzione italiana lenta rispetto a quella internazionale, è difficile sfuggire a un titolo come Emilia Pérez.
E se è vero che “non c’è migliore pubblicità della cattiva pubblicità”, gli ultimi rimasti all’oscuro della pellicola si dirigono in questo momento nella sala di un cinema per assistere al così definito “massacro del cinema”. Mentre menti hollywoodiane di prestigio come quelle di Meryl Streep e Denis Villeneuve hanno speso parole di lode per la pellicola, molti critici –con eleganza– e molti spettatori –con rabbia– si sentono di dissentire.
Il critico Soham Gadre per il Chicago Reader scrive: “Audiard commette l’imperdonabile peccato capitale del musical comico: ha fatto un film che non fa ridere e con una musica orribile.” Il collettivo GLAAD, da sempre in difesa dei diritti LGBTQ+, definisce il film come “l’immagine retrograda dell’esperienza trans”. Uno spettatore messicano condivide sui social un messaggio a caratteri cubitali, già ricondiviso da più di diciassettemila persone: “Mexico Hates Emilia Perez: Racist Eurocentrist Mockery.” (“Il Messico odia Emilia Pérez. Beffa eurocentrica razzista”)
È in Messico, infatti, che inizia la vicenda. Si parte da Rita (Zoe Saldana), un’avvocata insoddisfatta della propria carriera che si ritrova ad accettare l’offerta di un potente boss del cartello della droga (Karla Sofía Gascón): aiutarlo legalmente a ritirarsi da loschi affari e sparire per sempre. L’uomo ha però in mente un progetto a lungo termine: diventare a tutti gli effetti la donna che ha sempre saputo di essere. Rita decide di accettare l’incarico in cambio di una grossa cifra di denaro e la vita di tutti i soggetti coinvolti cambia per sempre.
Un film dai temi complessi e apparentemente assurdi, che si butta nel terzo atto in un intreccio di morte di massa legata a vicende che accadono realmente nel Paese. Non avrebbe senso, ora, spendere troppe righe a discutere la positiva o negativa rappresentazione che il film fa del Messico, anche se è bene precisare che parte della popolazione messicana si dichiara contraria ad essa con valide motivazioni, per esempio il fatto che gli attori improvvisino un accento totalmente lontano dalla realtà (si pensi all’italiano di House of Gucci). Si può però parlare del fatto che Emilia Pérez non è propriamente etichettabile come “un film sul Messico”, ma come un film ambientato in Messico – ma anche Bangkok, Tel Aviv, Lusanna e Londra, se vogliamo essere precisi. La verità è che il Messico fa solo da contorno in un film il cui stile scenografico è paragonabile a quello di un teatro di posa; non a caso il film è stato quasi interamente girato in uno studio in Francia. Lo sfondo della vicenda è dunque qualcosa di vagamente astratto: pensiamo all’uso della fotografia, dei colori, e di vere e proprie scene ambientate “nel nulla” (la telefonata a schermo diviso tra le tre protagoniste).
La colpa che si può dare ad Emilia Pérez, casomai, è lo sfruttamento di una tragica vicenda reale ai fini di una narrazione interessante. Le scomparse misteriose di civili in Messico costituiscono un vero e proprio allarme nazionale di attualità, con circa 114.000 scomparse dal 2007 a oggi. Emilia Pérez sfrutta questa narrativa per costruire l’arco di redenzione della protagonista, che decide insieme all’avvocato che l’ha aiutata nel processo di transizione di mettere in piedi un’associazione di beneficenza a favore delle famiglie delle vittime. Un tema perciò inserito in sceneggiatura per arricchire il personaggio principale senza badare all’accuratezza di cronaca che meriterebbe la vicenda.
Per quanto riguarda la rappresentazione trans, l’irrazionalità e la fantasia della situazione in cui viene inserita renda il discorso complesso. Jacques Audiard, regista del film, maneggia uno stile pieno di sé, che può far sembrare ogni tema da lui trattato quasi “sbandierato” in maniera arrogante. Forse un progetto troppo ambizioso, dunque, che gli è sfuggito dalle mani: buona la rappresentazione delle tematiche trans, ma nel momento in cui tratti il percorso di transizione in maniera diretta, forse era meglio non farlo in un film che di realistico non ha nemmeno gli accenti degli attori protagonisti.
Forse, ironicamente, l’unica cosa che funziona davvero in questo calderone di idee – ricordiamo che il film era stato pensando per un film diviso in quattro atti ben distinti – è proprio l’aspetto del musical che fa a pugni con quello d’azione: per quanto criticato per lo stile delle canzoni, che effettivamente di memorabili non ne ha nemmeno una, lo stile di scrittura di Clément Ducol e Camille (ve lo ricordate Annette con Adam Driver e Marion Cotillard?) si adatta a una rozza bozza di visione venuta in sogno. “Ironicamente”, dicevamo, perché è un musical che farebbe tranquillamente a meno delle canzoni… ma è Jacques Audiard a non voler fare a meno del musical. Ha dichiarato in un’intervista: “Era il mio film precedente che doveva diventare un musical, ma poi non se n’è fatto più niente. Prima o poi doveva succedere.”
Viste le innumerevoli critiche che rischiano di affondare il film proprio negli ultimi giorni prima della chiusura delle votazioni per gli Oscar, ci viene da pensare che i film andrebbero fatti non solo come atto di vanto registico che ambisce ad una “grandezza” evanescente. Si rischia di volare troppo vicini al sole e di rimanere a mani vuote: senza statuetta, senza successo e senza il benessere di una comunità che vorrebbe solo sentirsi ben rappresentata.
Tirando le conclusioni, Emilia Pérez è tutto sommato un film tecnicamente creativo, all’avanguardia non tanto nel metodo, ma nello stile. È l’esplosione della visione personale di un regista che sembra non curarsi molto dello spettatore, il che non implica per forza una critica negativa nel momento in cui ha una funzione creativa eccezionale che, però, in questo caso sembra mancare. Può risultare una scelta di arroganza come di coraggio.
Lo vogliamo prendere però come un campione di partenza per fare un film migliore, con rappresentanza di genere e di minoranze adeguate, ma soprattutto per tutti quei film — e questo lo riconosciamo anche a questa pellicola — che sfidano i canoni di genere (in tutti i sensi) e si lanciano in visioni esoteriche e ispirate a costo della condanna di critica e pubblico.

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