The King is BACK!
Agli spettatori il compito di decidere se riferire questa asserzione al ritorno sul grande schermo del Re del Rock ‘n Roll, dopo essere stato interpretato già da attori del calibro di Kurt Russell e Michael Shannon, oppure al ritorno dietro la macchina da presa – dopo ben 9 anni – di uno dei registi più divisivi, sfrontati e sfacciatamente personali degli ultimi tre decenni, ovvero Baz Luhrmann.
Elvis segna, infatti il primo lungometraggio firmato dal cineasta australiano dai tempi de Il Grande
Gatbsy, datato 2013, che decide di tornare sulla scena in pompa magna con questo biopic totalmente atipico e fuori dagli schemi, che abbandona i canoni tradizionali della narrazione womb-to-tomb per trasportare lo spettatore in una cavalcata frenetica e vorticosa, che non si preoccupa di raccontare nel dettaglio la vita del Re, ma al contrario si concentra – in maniera estremamente coraggiosa – sull’Elvis Icona, sull’Elvis Dio, sull’Elvis Gallina-dalle-uova-d’oro, sull’Elvis Performer.
Luhrmann concepisce un’opera raffinata e cinematograficamente disinibita, che non ha alcun interesse di tipo biografico, nella quale l’uomo dietro al Simbolo non ha spazio, proprio perché – forse – nella vita dello stesso Presley la dimensione personale e individuale non aveva modo di esistere, soffocata dalla necessità viscerale di dover essere una figura quasi divina, un uomo capace di stravolgere le masse, l’oggetto del desiderio sessuale di milioni di persone e l’oggetto della bramosia – economica – delle persone a lui più vicine. Ecco dunque che tutte le questioni più personali, come la relazione con la moglie Priscilla o la caduta nella spirale delle droghe, restano sullo sfondo, elementi volutamente mai approfonditi, per lasciare spazio al vero centro tematico del film: il rapporto dell’Icona-Elvis con il Mondo e – dunque – con i fan, con i quali si crea un legame di interdipendenza tossica (nel film si dirà che ciò che ha ucciso il Re è stato l’amore del e per il suo pubblico, rispetto al quale nulla poteva competere, nemmeno la famiglia), oppure la complicata e discussa relazione con lo storico manager, il Colonnello Parker, vero e proprio “uomo dietro le quinte” del fenomeno Elvis.
Se appare chiaro, dunque, che questo film si accosti al soggetto in maniera tematicamente e narrativamente interessante e originale, è doveroso spendere qualche parola anche sulle scelte di messinscena del regista, che riesce a costruire un impianto visivo strabiliante, pregno dell’estetica e della tecnica luhmanniana: la regia è – come al solito – frenetica e vorticosa, fatta di audacissimi movimenti di macchina e inquadrature che sorprendono per composizione ed impatto; un montaggio frenetico (vera grande cifra stilistica del cineasta australiano) che valica largamente il confine tra mera tecnica ed espressione artistica e regala momenti di spessore cinematografico altissimo, oltre a conferire alla pellicola un ritmo irresistibile per una larghissima parte del minutaggio, concedendosi però sapientemente alcuni momenti di maggiore respiro e sospensione, per non sfiancare lo spettatore.
Una fotografia a tratti sberluccicante e sfarzosa e a tratti funebre contribuisce largamente alla costruzione dell’alone mitico e leggendario che circonda il protagonista (basti pensare alla scena di registrazione in studio di Heartbreak Hotel), coadiuvata in questo compito da un lavoro sui costumi e sulle scenografie che ha del meraviglioso e dell’incredibile, altro grande fil rouge della filmografia del regista
Ciò che però, forse, ruba la scena dal punto di vista tecnico è l’utilizzo della musica: Luhrmann non cade – per fortuna – nella “trappola karaoke” e sceglie di usare le grandissime canzoni di Elvis in maniera narrativamente funzionale e mai ruffiana. Nonostante le scene di concerto siano numerose e rappresentino alcune delle sequenze più riuscite e spettacolari del film (su tutte il primo show a Las Vegas, o il ’68 Special, ma anche altre meriterebbero la citazione), molto spesso i successi del Re vengono riarrangiati per sottolineare diverse sfumature della composizione stessa. Molto riuscita in questo senso è la continua riproposizione di Suspicious Minds nel terzo atto, che si trasforma lentamente in una marcia funebre che accompagna Presley durante la sua progressiva caduta, nella quale “We’re caught in a trap, I can’t walk out” diventa l’urlo disperato di un uomo impotente e rinchiuso in una gabbia dorata, dalla quale non riesce in nessun modo a liberarsi.
Nonostante una messinscena pienamente in linea con l’estetica esuberante del regista, quest’opera potrà risultare godibile anche per coloro che non amano particolarmente lo stile di Luhrmann, il quale, dimostrando una maturità autoriale notevole, sa quando trattenere la propria mano e quando – invece – sciogliere le briglie e lasciarsi andare a momenti più barocchi, in cui il ritmo accelera e l’energia cinematografica, tipica delle opere del cineasta australiano, torna prepotente sulla scena con split screen che stordiscono creando fotogrammi debordanti, oppure con stacchi di montaggio rapidissimi, quasi da videoclip, o ancora con numeri musicali dal sapore fortemente teatrale, al limite del musical.
Menzione d’onore e “novantadue minuti di applausi”, inoltre, per il casting che si attesta al limite della perfezione: Austin Butler, qui alla prima vera grande interpretazione in carriera, dimostra un physique du role sensazionale, regalando un’interpretazione trascinante e folgorante che lo pone già da oggi nella lista dei favoriti per i prossimi Oscar. Un’immersione totale nel personaggio, una performance a 360 gradi, un lavoro sulle movenze del Re in concerto che ha del miracoloso per un giovane attore che, dopo questo film, si trova pronto al grande salto nell’industria (tra l’altro, piccola chicca, fonti ufficiali rivelano come Austin Butler abbia cantato tutte le canzoni del periodo giovanile di Elvis, affidandosi invece a mixaggi più incisivi nella seconda parte della pellicola, ambientata a Las Vegas).
Oltre alla prova di Butler, a cui non dedichiamo spazio ulteriore per non anticipare nulla ai lettori che ancora devono gustarsi la grande interpretazione dell’attore, da sottolineare è anche un grandissimo Tom Hanks, estremamente convincente nei panni del Colonnello Tom Parker, un uomo avido, viscido, manipolatore e subdolo: un ruolo abbastanza atipico rispetto a quelli che hanno portato il due volte Premio Oscar alla ribalta.
Il film vive del confronto tra questi due interpreti, che si dimostrano entrambi in forma smagliante e regalano più di qualche momento degno di nota, non sfigurando mai l’uno di fronte all’altro, nonostante l’ampia differenza di età tra i due, simboli del nuovo che avanza, rampante, e del vecchio che si fregia della propria pluridecennale esperienza.
In conclusione, questo Elvis segna il ritorno sulla scena di un Baz Luhrmann che, in maniera estremamente genuina ed efficace, riesce a trasmettere allo spettatore tutto il suo grandissimo – ed evidente – amore per il personaggio in questione, dipinto con la solita vitalità che contraddistingue lo stile del regista, il quale riesce a smussare, però, qualche spigolo che troppo spesso ha fatto storcere il naso ad alcuni spettatori e realizza un’opera potenzialmente molto pop, che potrebbe rappresentare la via del ritorno nell’industria cinematografica per un artista che, al netto dei gusti personali, propone sempre un cinema estremamente personale e riconoscibile. Forse in un mondo produttivo che spinge sempre di più verso la standardizzazione, c’è più che mai bisogno di un Baz Luhrmann sfavillante e dannatamente esuberante come quello visto in questo Elvis.
Il Re è tornato, ed è più vivo che mai.
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