Una musica latino-americana, una sala da ballo dai toni accesi e un uomo e una donna che danzano tutta la notte, lasciandosi andare a melodie allegre avvolte da una patina di malinconia. La prima sequenza di El Paraiso, nuovo film di Enrico Maria Artale prodotto da Ascent Film, Young Films e Rai Cinema, ci trasporta immediatamente in un’atmosfera nostalgica, presentandoci senza fronzoli i due personaggi principali e il loro modo di vivere attraverso un sentimento disfunzionale e al contempo imprescindibile.
Il regista romano, dopo il documentario Saro (2016) e le serie tv Romulus (2020) e Django (2023), torna al cinema raccontando quella che lui ha definito “una storia d’amore tra una madre e un figlio”. Il lungometraggio, presentato in anteprima alla 80ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, si è aggiudicato il Premio Arca Cinema Giovani per il miglior film italiano e nella sezione Orizzonti i riconoscimenti per la migliore sceneggiatura e per la migliore interpretazione femminile.
Julio Cesar (Edoardo Pesce) è un quarantenne che abita vicino Fiumicino con sua madre (Margarita Rosa De Francisco), una sessantenne di origini colombiane. I due sopravvivono collaborando con uno spacciatore locale (Gabriel Montesi) e si trascinano da anni in una relazione simbiotica. L’arrivo di Ines (Maria Del Rosario), una ragazza che dalla Colombia deve consegnare alla coppia degli ovuli di cocaina, andrà a minare gli equilibri di un quadro apparentemente sereno.
Il legame dei protagonisti sembra fissato nel tempo e nello spazio. Il loro appartamento, nel quale si svolge gran parte della vicenda, rappresenta lo specchio di questa unione. Gli oggetti, il mobilio e la struttura stessa sembrano immobili e immutati, adagiati e stratificati negli anni, proprio come Julio e sua mamma.
I due, nonostante il rapporto morboso che li unisce, hanno dei temperamenti opposti: lei espressiva, esuberante e irascibile, lui mansueto e remissivo. È proprio questa natura antitetica che definisce i contorni della vicenda, suggellando una connessione impossibile da scalfire. Perfino la lingua che parlano (un misto tra romano e spagnolo) diventa il modo per comprendersi e ripararsi dal prossimo.
La discordanza si riflette anche nelle scelte stilistiche: suoni vivaci e colori sgargianti si frappongono ad ambienti desolati e a dialoghi brevi e incisivi.
Il personaggio di Edoardo Pesce è bloccato in un limbo nel quale ha imparato a stare, è una sorta di eterno adolescente, che non ha conosciuto l’età adulta e guarda al mondo con occhi curiosi, ma spaventati. La madre rappresenta un porto sicuro, un’ancora che tiene ferme le incertezze di un futuro senza prospettive. In questo perenne presente non c’è riservatezza, non ci sono chiavi per le porte delle stanze e non è possibile dedicare un momento a se stessi. L’alternativa a quell’unica forma di amore è solo una dolorosa solitudine.
Julio probabilmente non sa come sognare, ha una conoscenza della realtà limitata e non riesce a immaginare un avvenire senza quel nido rassicurante, ma atrofizzato.
A Margarita Rosa De Francisco è affidata l’interpretazione più controversa, è una donna con un passato oscuro e dal carattere ribelle, ma il suo sguardo a volte perso nel vuoto rivela una dolcezza quasi infantile. Nel momento più toccante l’attrice canta Amor eterno di Rocío Dúrcal accompagnata dalla chitarra di Pesce, lasciando emergere la tristezza che cela il suo personaggio: con gli occhi lucidi e il trucco sbavato scandisce le parole della canzone (“tú eres la tristeza, ay, de mis ojos que lloran en silencio por tu amor”) mentre il figlio la osserva con tenerezza.
Il racconto percorre due strade: nella prima viene presentata una connessione irrinunciabile, nella seconda il protagonista deve affrontare le conseguenze dei suoi sentimenti, provando a ricostruirne le origini.
El paraiso è il luogo da cui proviene la madre, ma esiste davvero? O è solo un posto immaginifico creato per dare speranza a un bambino? Julio vivrà una seconda vita, alla scoperta di un paradiso ritrovato, ma sempre trattenuto da una figura che ormai è parte di lui. Artale lascia lo spettatore sospeso in un ballo senza fine, immortale e indissolubile.
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