Nel trasporre parte del primo volume della celebre saga letteraria di Frank Herbert, l’attesissimo Dune di Denis Villeneuve imbocca da subito – nello scivolare a perdita d’occhio (azzurro Fremen) sulle onde del deserto di Arrakis – la strada di un poderoso gigantismo visivo, che fa leva sulla potenza sensoriale del suono e dell’immagine come leve primarie della rappresentazione. Un colossale world building, impressionante per compattezza e coerenza, inventiva e originalità nel ricreare il foltissimo immaginario letterario non solo in pianeti, cittadelle e astronavi su larga scala, ma fin nei dettagli dell’arsenale di tools tecnologici: scudi ologrammatici (a cui pare si sia ispirato il lettore George Lucas – grande fan del ciclo di Dune – per le spade laser dei suoi Jedi), visori e mirini ottici, libro-film a far da proiettori di memorie e conoscenze.
Villeneuve modella l’avveniristica età feudale di Herbert aderendo a un’estetica monstre di grande impatto ma in fondo low-fi: dimostrando impeto visionario insieme a un gusto quasi analogico per un’immagine retrofuturista – evidente nel design dei velivoli d’aria con board di leve, spie e pulsantiere, nei mezzi di terra come la mietitrice che riproduce all’infinito il ciclo inarrestabile del lavoro e del Capitale (incarnato dalla richiestissima spezia), o ancora in tute e imbardamenti degni di un polveroso Mad Max.
Al servizio di un’epica cavalleresca, medioevale prima che fantascientifica, vi è una messinscena che all’intasamento frenetico di botti e scintille in CGI – oggi predominanti – predilige un gusto per la composizione figurativa classica e prospettica, nella costruzione di volumi, spazi, edifici, geometrie granitiche e scie di oggetti volanti. In tanto sfolgorante fulgore scenografico, si percepisce nettamente lo scarto di Villeneuve rispetto alla piattezza plastificata e alla confusione martellante e fumettistica di prodotti consimili nella fantascienza contemporanea. C’è tutto un senso di attesa e di preparazione rituale. Una calma studiata da officiante nel ritrarre le pose solenni. Una cadenza, un passo lento e arioso dell’inquadratura che modella l’oscura monumentalità di parate, cerimoniali, sfilate di figure schiacciate e rimpicciolite in un grande quadro coreografico dagli echi stilistici che sembrano risalire fino a Leni Riefenstahl. Dall’alto di una mobilità sinuosa che si incunea a volo d’uccello in panoramiche sopra palazzi e mura di Arrakis e nel paesaggismo sconfinato del deserto.
Ma la sottile abilità di Villeneuve sta in realtà nel saper bilanciare tutto questo apparato con la dimensione umanista del suo cinema, che in Dune è preponderante ancora una volta, in una tensione perfettamente in equilibrio tra colossale gigantismo e ripiegamento intimista. Un’attenzione alle psicologie – non senza qualche trappola di una recitazione talvolta stereotipata – esternata in un uso insistito dei primi piani e della dialettica classica del campo/controcampo, come poco si vede nella caotica sci-fi di oggi.
Dune finisce così per appartenere tanto alla mitologia del suo creatore originario, tanto alla visione del mondo e all’autorialismo di Villeneuve. In questo senso, il film costituisce il più recente approdo delle suggestive speculazioni esistenziali e filosofiche sul conflitto delle individualità che il regista canadese ha disseminato nei precedenti Arrival (2016) e Blade Runner 2049 (2017). Per quella che ad oggi – in attesa di eventuali seguiti e ulteriori sviluppi della galassia di Herbert – si configura come una robusta trilogia sci-fi con una sua profonda e ben definita poetica, ogni volta plasmata in forme inedite e costantemente aperta al dubbio e all’ambiguità del senso. Incentrata sulla quest della ricerca identitaria e della verità su se stessi – a dire il vero già in essere in un’opera di sdoppiamenti e scissioni come Enemy (2013) -, e racchiusa nelle pieghe di cortocircuiti emotivi spazio-temporali, dentro enigmi, sfumature e ombre da decifrare nei segnali offerti dal linguaggio visivo e sonoro (il sound design e gli scores dei film di Villeneuve, l’abbiamo visto, sono sempre unità narrative e macchine sensoriali che si comportano come funzioni e personaggi veri e propri).
Un percorso di comprensione e riconoscimento del sé da rintracciarsi nell’evidenza nascosta in segni criptici, visioni oniriche (?) ingannevoli o profetiche, e voci interiori che illuminano epifanie su un destino più vasto. Che riguarda non soltanto la missione solitaria dell’eletto, ma si intreccia alle sorti di tutte le specie e le parti sociali chiamate in causa nell’universo di riferimento. Non ci riferiamo esclusivamente al giovane Paul Atreides (Timothée Chalamet) di Dune, solo l’ultimo epigono a seguire questa parabola. Ma è quanto, per altri versi, già sperimenta Louise Banks (Amy Adams) in Arrival: coraggiosa studiosa di antichi alfabeti alla scoperta premonitrice del proprio doloroso percorso affettivo e di vita, segnata da un sacrificio privato (una figlia persa, mentre a Paul tocca la scomparsa del padre) che si sovrappone al suo provvidenziale salvataggio della Terra. Non da una reale minaccia esterna, bensì dai suoi abitanti biliosi, marziali e dissennati (gli stessi di Dune), ottusamente prigionieri di una delirante fobia per il diverso.
Tutto ciò grazie al contatto con una dimensione aliena con la quale Louise comunica ed empatizza attraverso uno schermo bianco e rettangolare, squisitamente cinematografico, da cui rimbombano vibrazioni e si proiettano figure e simboli morfologicamente sconosciuti, che però registrano sorprendenti affinità col vissuto personale della donna: l’insistente presenza della figlia appare a turbare i sogni di Louise come avviene per la misteriosa ragazza del deserto (la guerriera Fremen Chani interpretata da Zendaya) che insidia la coscienza di Paul in Dune. La mano di Louise appoggiata sul vetro della parete-schermo, per esporsi e interagire con le creature, non è un’immagine troppo lontana dal gesto di Paul costretto a infilare le dita nella misteriosa scatola nera della Reverenda Madre, per farsi “leggere” dentro e – anche qui – stabilire una connessione con un’impalpabile energia sensibile, catalizzatrice della crescita morale e dell’evoluzione dell’ordine costituito verso il bene collettivo. Entrambi i personaggi di Paul e Louise tentano, a partire da un’estensione potenziata delle possibilità espressive, una comunione fisica e spirituale con un universo linguistico e sensoriale complesso, di difficile traduzione, ma in qualche modo addomesticabile e fatto progressivamente proprio. Diventano protagonisti di una sorta di conversione, che li trasforma in preziosi anelli di congiunzione per guidare l’agire autodistruttivo di un’umanità congenitamente isterica e bellicosa, sempre sul punto di implodere, preda di fazioni, odi radicalizzati e tensioni estremiste (profeti fanatici, militari e politici reazionari in Arrival, le casate, i gruppi etnici e le corporazioni in Dune) verso una pacificazione ancora possibile.
Anche in Blade Runner 2049, con la storia dell’indagine sulle origini e la vera natura dell’agente K., assistiamo a un altro cupo e malinconico viaggio nella definizione di un’identità che si sublima presto in una riflessione ontologica più grande, direttamente discendente dal prototipo di Ridley Scott: su quanto ci sia di umano e di artificiale – e se sia possibile distinguerli – nelle immagini della coscienza, del sogno e del ricordo. Il personaggio di Ryan Gosling, cercatore di esseri sintetici obsolescenti, portato lui stesso a un certo punto a sospettare di essere il figlio di una replicante, è alle prese, come Paul Atreides, con la messa a fuoco dello stesso carico di apparizioni fantasmatiche su più piani temporali, a cui dover dare un senso, un corpo e una direzione (l’agente K. rivolto a far luce sul passato, Paul oppresso da un futuro che ancora non riesce ad evocare completamente). Sono immersi nello stesso serbatoio di visioni indecidibili tra ancoraggio alla realtà e introflessione onirica, tra una profezia che può (auto)avverarsi e compiere un destino (Paul), e una sequenza di (falsi?) dati biologici che rischia di confermare o invalidare il senso di un’intera esistenza (l’agente K.).
Due film certamente diversi per derivazioni e mitologie di riferimento, Dune e Blade Runner 2049. Villeneuve sembra tuttavia legarli anche attraverso un altro piccolo dettaglio: un’analogia tra la statuetta del toro in corsa che Paul osserva in Dune – oggetto emblema dell’attività del nonno paterno – e il cavallino-giocattolo che l’agente K. ritrova in Blade Runner 2049 (ma il fil rouge si tende fino al modellino in miniatura dell’alieno-eptapode scorto tra i giochi della figlia di Louise in Arrival): due simulacri di identità fluide, instabili e inafferrabili, due indizi ugualmente decisivi e fuorvianti, due simboli di un’eredità problematica e di un retaggio genealogico che riconduce ai grandi padri (veri o putativi), a indicare o confondere il sentiero di una missione continuamente rimessa alla prova. “Questo è solo l’inizio”, decreta Paul chiudendo il primo pannello di Dune. Che sia su Arrakis o su altri lidi immaginifici, restiamo in attesa delle nuove sfide che verranno per gli specialissimi umani di Denis Villeneuve.
Questo articolo è stato scritto da:
Scrivi un commento