Tra i meriti cinematografici di questo 2021 vi è sicuramente l’aver definitivamente consacrato presso i cinefili di tutto il mondo la figura del giovane regista giapponese Hamaguchi Ryūsuke. Noto in Occidente fin dal 2015, quando il suo fluviale Happy Hour vinse due premi a Locarno, e già in concorso a Cannes nel 2018 con Asako I & II, Hamaguchi quest’anno ha partorito due film che hanno razzolato premi e consensi pressoché unanimi in due tra i più importanti festival del mondo: a febbraio Il gioco del destino e della fantasia ha vinto l’Orso d’Argento – Gran Premio della Giuria alla Berlinale, mentre a luglio proprio Drive my car, il film di cui ci accingiamo a parlare, ha ottenuto il Premio alla Miglior Sceneggiatura al Festival di Cannes. Tratto da due racconti (uno omonimo, l’altro intitolato Shahrazād) contenuti nella raccolta Uomini senza donne del celebre scrittore Murakami Haruki – un testo del quale nel 2018 diede origine al capolavoro Burning – L’amore brucia del coreano Lee Chang-dong –, il film di Hamaguchi è un’ampia (tre ore) e complessa parabola sulla rielaborazione del dolore e sui rapporti tra esseri umani

La vicenda narrata ruota attorno al dramma personale dell’attore e regista teatrale Kafuku Yūsuke che, ingaggiato per mettere in scena lo Zio Vanja di Čechov, viene affiancato dalla giovane e taciturna autista Watari Misaki, incaricata di accompagnarlo quotidianamente in macchina nel tragitto casa-lavoro. Kafuku, però, è tormentato dai ricordi della defunta moglie Oto e, a poco a poco, instaura con l’autista un rapporto singolare, che aiuterà entrambi a confrontarsi con i propri traumi e le proprie relazioni irrisolte. 

Con Drive my car, Hamaguchi porta a compimento un percorso di evoluzione tematica e stilistica iniziato con le sue opere precedenti. La predilezione per il dialogo e il grande controllo della messa in scena si accompagnano allo sguardo intimo con cui il regista guarda ai rapporti tra i personaggi e al loro bisogno celato di condividere con gli altri le proprie esistenze e i propri drammi. La comunicazione, nel cinema di Hamaguchi, è sempre apparentemente impossibile, tanto che i personaggi faticano a penetrare la coltre di mistero che li avvolge. Non è un caso che la caratteristica delle opere teatrali messe in scena da Kafuku all’interno del film, sia quella di essere interpretate da attori che parlano lingue differenti, segno di una incomunicabilità che pervade i rapporti umani sul palcoscenico e nella vita. 

Ma in questo film il desiderio di relazione e la difficoltà di comunicazione non riguardano solo i vivi, ma anche i morti: Kafuku dialoga quotidianamente con la defunta moglie tramite un’audiocassetta, registrata da lei prima di morire, in cui la donna recita Zio Vanja, a eccezione delle battute del protagonista che sono ripetute dal marito. Tramite questo dialogo costante Kafuku ripensa alla donna e ai misteri insoluti del loro rapporto, primo tra tutti un racconto, rimasto privo di finale, che la donna era solita portare avanti oralmente dopo aver fatto l’amore col marito. “Noi sopravvissuti non facciamo altro che pensare ai morti.” dirà a un certo punto la giovane autista Watari Misaki – coetanea della defunta figlia di Kafuku e anch’essa portatrice di traumi irrisolti – alla quale nel corso del film l’uomo si avvicinerà fisicamente (in principio siede sui sedili posteriori, poi accanto a lei e infine, in uno dei momenti di maggior lirismo della pellicola, i due avvicinano le mani, protese fuori dal tettuccio della Saab Turbo rossa, stringendo ognuno una sigaretta bruciante) e spiritualmente: è il dolore del passato ad avvicinare le persone nel presente e a sospingerle verso il futuro. Non a caso i due protagonisti condivideranno un viaggio esistenziale sull’innevata isola di Hokkaidō, patria di Misaki: un pellegrinaggio alle origini della sofferenza per lei e il desiderio di partecipare a quel dolore per lui. Drive my car è dunque un road movie in cui la vera destinazione da raggiungere è il proprio cuore, unico luogo in cui – grazie anche alla compartecipazione del trauma – è possibile provare a fare i conti con i misteri del passato e trovare la pace. Non a caso Takatsuki, il giovane attore ex amante della moglie di Kafuku, dirà lui che “per quanto ci sia comprensione reciproca con una persona, per quanto la si ami, non si può leggere nel cuore di qualcun altro come in un libro aperto. Se ci proviamo, andiamo incontro solo a sofferenza. Ma se cerchiamo di guardare nel nostro cuore, se ci sforziamo davvero di farlo, alla fine ci riusciremo, questo sì.” 

Hamaguchi fa dunque un film sul travaglio della rielaborazione dei fantasmi del passato (non è casuale, in tal senso, la scelta di spostare, rispetto al racconto di Murakami, l’ambientazione della vicenda da Tokyo a Hiroshima) e le battute finali dello Zio Vanja – che invitano ad affrontare le prove del destino e, nonostante tutto, ad andare avanti, a vivere e a credere nella possibilità di una requie finale – suonano (strano a dirsi, visto che sono espresse a gesti da un’attrice muta) come il perfetto complemento a Drive my car: un testo filmico di straordinaria densità semiotica e semantica, emotivamente e intellettualmente travolgente, da vedere e rivedere

Questo articolo è stato scritto da:

Jacopo Barbero, Redattore