Dal 13 marzo è nelle sale italiane Dreams (Sex Love) del regista norvegese Dag Johan Haugerud, il film vincitore dell’Orso d’oro al Festival di Berlino 2025 e, proprio da pochi giorni, designato anche Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani – SNCCI. Questa volta è il sogno la parola che compare fuor di parentesi nel titolo e che a inizio film si dissolve per ultima dallo schermo: Dreams è infatti il terzo capitolo delle trilogia tematica di Haugerud sulle dimensioni che compongono le nostre vite sentimentali, quella del sogno in quanto desiderio (Dreams), quella erotica (Sex) e quella romantica (Love). Nonostante Dreams sia il primo dei tre lavori ad uscire in Italia ma l’ultimo ad essere stato presentato in anteprima ai Festival internazionali (Sex era al Festival di Berlino del 2024 e Love alla Mostra del cinema di Venezia sempre di anno scorso) l’ordine di visione non è importante, dal momento che i film seguono la proprietà commutativa secondo cui cambiando il loro ordine il risultato non cambia: nella trilogia ciascun tassello si completa vicendevolmente e ha bisogno del sostegno degli altri due per contribuire alla definizione della nostra sfera relazionale. L’unico punto di contatto fra i tre film è l’unità di luogo, l’ambientazione di Oslo, dove in Dreams troviamo la diciassettenne Johanne (Ella Øverbye) innamorarsi perdutamente dell’insegnante di francese Johanna (Selome Emnetu) senza riuscire però ad afferrare quanto l’amore sia corrisposto, o meglio, senza riuscire a dar voce ai suoi sentimenti. Come reazione, la ragazza sceglie di metabolizzare questa esperienza (s)travolgente nella scrittura di novantacinque pagine di diario che mescolano la realtà alla fantasia (ossia ai suoi desideri che su inchiostro acquisiscono un loro senso), e al contempo tenta di trovare un sostegno emotivo confidandosi con la madre Kristin (Ane Dahl Torp) e con la nonna Karin (Anne Marit Jacobsen). La storia di Johanne metterà i rapporti di coppia sotto una luce inesplorata, costringendo le persone coinvolte a riformulare la loro idea di relazione e a riflettere sui fragili confini dell’amore.

Johanne e Johanna durante una lezione
Haugerud, sia regista che sceneggiatore di tutti e tre i film, nella vita è anche romanziere e dalla sua passione per la scrittura è nata questa trilogia di parola che, se trova precedenti in altre simili come quella dei Before di Richard Linklater, si ritaglia comunque il suo spazio come portavoce di una prospettiva laterale e anticonvenzionale sui sentimenti, intesa come declinazione, trasformazione e rimodulazione dei rapporti relazionali. A fare i conti con il ripensamento delle convenzioni affettive questa volta è Johanne, che non essendo ancora maggiorenne rende il film l’unico vero e proprio coming of age della trilogia: soltanto una lettera distingue il suo nome da quello della sua professoressa, ma ciò non implica che le due siano così simili anche caratterialmente. Per scoprirlo, allora, Johanne prende coraggio e cerca di buttarsi, se non infrangendo, perlomeno iniziando a mettere in crisi le leggi morali che ha introiettato nel corso della sua vita. Comincia così a far visita a Johanna qualche pomeriggio con la scusa di imparare l’uncinetto e tutto scorre liscio, le giornate passano tranquille tra sorrisi e gesti d’affetto, ma il suo desiderio rimarrà tale, diventando presto un sogno. Sex iniziava proprio con un sogno, quello di un uomo che vedeva destabilizzata la sua eterosessualità dallo sguardo seducente di David Bowie e che il protagonista confessava alla famiglia per trovare un confronto: è un cinema della crisi, infatti, quello di Haugerud, perché anche per Johanne è il sogno a mettere in crisi le norme etiche societarie, sia esso il sogno inteso come desiderio e pulsione carnale verso l’insegnante, oppure anche quello psichico che ogni notte lascia libero sfogo al suo inconscio. E’ una crisi dei sentimenti che invoca un pieno cambio di paradigma, quello del sistema relazionale normalizzato e problematizzato da Dreams con una naturalezza a tratti sconcertante, spesso sussunta nel viso e nei gesti eloquenti di Johanne: anche lei confessa i suoi sogni alla famiglia – vale a dire il desiderio di essere amata oltre ogni codice etico prestabilito – ma lo fa soltanto dopo averli trascritti su carta, perché la scrittura l’aiuta ad assimilare e metabolizzare queste sensazioni nuove e, per certi versi, sovversive. Lo sconcerto nasce dunque dalla capacità analitica di Haugerud sui sentimenti e sulla capacità trasformativa della parola, che nel film è centrale tanto nel diario che Johanne porta a compimento come fosse una seduta psicanalitica, quanto nelle reazioni delle sue familiari, anch’esse condotte a riflettere sulla decostruzione delle relazioni. La parola, infatti, è amata anche dalla nonna, che ha sempre tradotto i suoi sentimenti in poesie affidando alla parola in rima traguardi e delusioni, soddisfazioni e rimorsi, quegli stessi rimorsi che adesso riemergono dal desiderio (ancora) di aver fatto molte più esperienze in gioventù, ossia dalla crisi scatenata in lei dalla nipote.

Johanne discute del suo possibile libro con la madre e la nonna
E’ la crisi delle maschere, dei ruoli sociali e delle etichette prestabilite, una crisi che dà il via a un confronto generazionale dalle tinte agrodolci e talvolta spassose, come nel dialogo madre-figlia su Flashdance e la sua conferma degli stereotipi femminili conservatori, in un insolito paradosso dove non è Kristin ma Karin ad avanzare le critiche progressiste. La generazione più anziana si dimostra più avanti di quella di mezzo anche in merito alla possibilità di trasformare il diario della giovane studentessa in un libro, perché se Kristin diventa più accondiscendente nei confronti della figlia soltanto quando realizza che il manoscritto può essere venduto come un “gioiello femminista” (un’etichetta, appunto), sua madre la redarguisce ferocemente per la sua miopia etica. Haugerud intavola infatti anche un acuto discorso sulla capitalizzazione dei sentimenti, perché nemmeno Johanne è convinta di questa manovra commerciale e si pone continue domande riguardo al confine labile fra pubblico e privato, su quanto una storia personale possa venire consumata dall’esposizione agli altri, sul rischio che le parole non siano abbastanza e che queste perdano di valore quando esposte in pubblica piazza.
Tuttavia, si è parlato molto di parola ma non si è ancora sottolineato quanto Dreams sia, al pari dei restanti due capitoli, anche un film di luoghi: Oslo, ovviamente, di cui Haugerud inquadra spesso le lunghe scalinate (tanto da dedicarle la scena d’apertura) per trasformarle in segno e attribuire loro un preciso significato; in Love, per esempio, il regista insisteva sulle inquadrature sul municipio della capitale per suggerirci come la vita fosse in comune, in Dreams le scale sono il perfetto simulacro della fatica che i tumulti sentimentali, soprattutto se così obliqui rispetto alla norma, richiedono a un’adolescente come Johanne (la vita come scalata: non dicevamo poc’anzi che Dreams è l’unico coming of age della trilogia?), ma anche le scale come desiderio, come spinta propulsiva a raggiungere la cima. Perché conoscere più approfonditamente Oslo equivale a conoscere di più noi stessi, ci dice Haugerud, così come per Johanne imparare a memoria la strada che conduce all’appartamento della sua insegnante le permette di dare ordine ai suoi sentimenti e di acquisire più consapevolezza di sé.
Haugerud, distante anni luce dal fare un film a tesi per autovalidare le sue posizioni, firma una trilogia preziosa per il cinema contemporaneo, in cui non ci sono né buoni né cattivi, né giusto né sbagliato, ma soltanto una delicatezza di sguardo e una capacità introspettiva di fronte a cui ogni spettatore dovrebbe abbattere ogni barricata e lasciare che il cinema compia il suo dovere: sfidare le sue certezze e offrire costantemente nuovi orizzonti di vita, per far sì che quelli del film non rimangano soltanto dei sogni.

Scrivi un commento