Una produzione travagliata fatta di casting e recasting, conflitti sul set, accuse e smentite e poi gossip, gossip a non finire. Dell’ultimo film di Olivia Wilde, Don’t Worry Darling, si è parlato tanto ancor prima della sua effettiva uscita in sala, ma probabilmente se ne parlerà assai meno adesso che il film è approdato al cinema.
Presentato in concorso alla 79° edizione della Mostra Cinematografica di Venezia, l’opera seconda dell’attrice e regista Olivia Wilde (già regista nel 2019 della commedia La rivincita delle sfigate) è un thriller psicologico che tenta di cavalcare l’onda del filone distopico, mixando l’ambientazione retrò a un concept di partenza legato a tecnologie di un futuro a noi molto vicino.
Protagonisti della pellicola sono Alice e Jack, rispettivamente interpretati da Florence Pugh e Harry Styles, una coppia di giovani sposi che vive nella comunità di Victory, idilliaca cittadina californiana anni ‘50 circondata dal deserto. I due vivono la loro vita in tranquillità e perfetta sincronia con le altre coppie del quartiere e della città: mentre le mogli passano il loro tempo a rassettare la casa, a spettegolare e a fare shopping, ogni giorno i mariti della comunità escono di casa e si avviano, a bordo delle loro bellissime auto, verso il quartier generale del progetto Victory, che fa capo a Frank (Chris Pine), enigmatico fondatore della città e di questo misterioso progetto top secret che sembra avere come scopo “lo sviluppo di materiali innovativi”.
Tutto scorre serenamente, tra feste casalinghe, cocktails ed eventi aziendali, fino a quando in Alice non viene instillato il terribile dubbio che dietro a Victory e a tutti i segreti di Frank non si nasconda qualcosa di terribile che coinvolge direttamente tutti i componenti la comunità, invischiati in una realtà in cui ogni domanda viene presto messa a tacere.
In effetti il personaggio di Florence Pugh non è l’unico ad avere dubbi: una volta terminata la visione, infatti, il dubbio che in questo film ci sia qualcosa di estremamente stonato e scomposto è davvero forte.
Olivia Wilde sembra non sapere quale sia il suo reale intento o, quanto meno, non riesce a veicolarlo. Il soggetto del film, che pure avrebbe potuto prestarsi a sviluppi interessanti, naviga senza una precisa meta in una sceneggiatura piena di buchi, aspetti irrisolti e tematiche inconsistenti o mai davvero approfondite, e persino il tanto atteso colpo di scena rivelatore si dimostra fiacco, complice anche l’incapacità della vicenda di costruire la giusta tensione.
Punto debole dell’intera pellicola sono, in effetti, i tempi narrativi: i tre canonici atti si susseguono alternando momenti con tempi estremamente ed eccessivamente dilatati a rush precipitosi che non concedono di intraprendere percorsi e approfondimenti che avrebbero giovato al finale del film (in cui tutto accade velocemente e fin troppo facilmente) e che avrebbero davvero migliorato la qualità della trama e del film nel suo complesso. Gli spettatori si ritrovano con tante domande senza risposte, situazioni tratteggiate e personaggi deboli e non degnamente sviluppati.
Inseriti in questo contorno farraginoso, gli interpreti fanno quello che possono con risultati e fortune alterne. Florence Pugh regala un’ottima interpretazione e si conferma uno dei volti più interessanti di questa generazione di attori, calandosi bene nel ruolo della perfetta e bellissima moglie di altri tempi ma senza dimenticarsi per strada la sua capacità di incastrare sul suo volto stati emotivi complessi.
Harry Styles, al contrario, sembra dover ancora trovare la sua dimensione attoriale e, imbrigliato anche dalla scrittura del film, porta sullo schermo un personaggio piatto che neppure negli attimi più tormentati riesce a trovare vera potenza e tridimensionalità.
Il resto del cast – che, oltre al già citato Chris Pine, comprende anche la stessa Olivia Wilde – resta composto e su un buon livello, senza però regalare performance indimenticabili.
Nota di merito è invece tutto il comparto visivo del film. Le idilliache e curate scenografie anni ‘50 sono accompagnate da una fotografia brillante e satura di colori e da un comparto costumi e make-up degno di nota. A incrinare lievemente la raffinatezza visiva sono solamente le sequenze oniriche e di distorsione della realtà che più volte ricorrono nel film e che, seppur utili alla trama, risultano invadenti e malamente impastate con il resto.
A conti fatti quello che manca a Don’t Worry Darling è, senza ombra di dubbio, una linea precisa e una chiarezza d’intenti: la possibilità di utilizzare una realtà utopica-distopica come quella creata con il progetto Victory per costruire una critica sociale ben calibrata viene sprecata dalla regista nella probabile foga di mettere troppa carne al fuoco, e le varie tematiche timidamente abbozzate nel film – un accenno di femminismo? Una critica a un sistema sociale di fatto basato sull’omologazione? O forse una critica alle sempre più invasive realtà virtuali? – cadono nel vuoto lasciando l’amaro in bocca tipico di quelle occasioni mancate.
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