Durante un controllo di polizia, un individuo vestito con l’iconico abito rosa di Marilyn Monroe e un camion pieno di cani viene fermato e portato in stazione. Una psicologa, Evelyn (Jojo T. Gibbs), viene chiamata per interrogare il prigioniero, Douglas, soprannominato ‘Doug’ (Caleb Landry Jones). Durante le sedute con la dottoressa, l’uomo racconta la propria triste storia di emarginato, vissuta circondato da un’unica presenza costante: quella dei suoi fedeli cani.

Corpo di Cristo

Presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, il nuovo film di Luc Besson si configura già nell’impostazione narrativa come una storia personaggio-centrica. In questo caso, l’attenzione dello spettatore è diretta interamente su Doug (nomen omen, o in questo caso, ‘omofonia omen’) e le sue sventure, che lo spingono a ritagliarsi un proprio spazio all’esterno della società, preferendo alla compagnia umana quella dei cani. Il film si poggia dunque quasi interamente sulle spalle di Landry Jones, che domina indiscutibilmente l’inquadratura con un’interpretazione che già durante l’ultima Mostra di Venezia aveva fatto parlare di sé. Certo è che l’attore dimostra un’enorme qualità camaleontica, adattando il proprio viso e il proprio corpo a molteplici trasformazioni.

Un corpo, quello di Doug, menomato e costretto ad essere “manipolato” dal personaggio stesso per poter muoversi, atto che tuttavia lo spinge sempre più vicino all’autodistruzione (qualsiasi spostamento, come spiega il protagonista, potrebbe dislocare il proiettile che è rimasto incastrato nel suo corpo). Un corpo, insomma, sofferente e accostato sin dall’inizio all’iconografia cristologica e alle sanguinose vicende bibliche, richiamate anche dalla frase di Alphonse de Lamartine che apre il film : “Ovunque ci sia un infelice, Dio invia un cane”.

Sin dall’inizio, Doug viene dunque dipinto come martire e vittima della vicenda, un Cristo il cui corpo si fa ricevente e ricettacolo, in maniera quasi parossistica, del male del mondo. 

“We live in a society”

Per lo spazio che dà al proprio protagonista e l’intensità psico-fisica richiesta dal ruolo, oltre che per alcuni elementi della costruzione filmica come la colonna sonora (in questo caso composta da Éric Serra) e l’utilizzo, da parte di un personaggio tanto sfortunato, del crimine come forma di risarcimento nei confronti di una società che gli è avversa, Dogman è stato paragonato ad un altro film che ha vinto il Leone d’Oro nel 2019, Joker di Todd Phillips

Pur essendo comunque passibile di critiche, il Joker di Phillips aveva dalla sua una caratteristica che rendeva il prodotto finale più sfaccettato di quanto non sia il film di Besson: la presenza di un narratore evidentemente inaffidabile, fatto che spingeva gli spettatori a porsi domande sulla legittimità della metodologia di Arthur Fleck pur riconoscendone e non diminuendone l’evidente malessere esacerbato dal mondo esterno. Nel caso di Dogman, non c’è nello spettatore nessun motivo per dubitare delle parole e della narrazione di Doug. Che le nostre simpatie debbano essere interamente rivolte al protagonista viene poi ribadito in maniera affatto sottile nel finale, in cui le suggestioni cristologiche esplodono in maniera dirompente a suon di Non, je ne regrette rien (in italiano: “non rimpiango nulla”). Sulla legittimità del ricorso alla criminalità come risposta ad ingiustizie ricevute dall’esterno si potrebbe certamente discutere creando un dialogo potenzialmente interessante, ma Dogman non lascia certamente spazio all’ambiguità e, dunque, neppure al dialogo, presentandoci senza chiaroscuri né possibilità di appello la propria tesi.

Potenzialmente interessante, anche lo spunto di rendere Doug un performer in drag queen non porta in realtà a nessun particolare sviluppo per il personaggio o per l’arricchimento del film, sollevando il dubbio che si sia trattato di un elemento inserito solo per soddisfare un trend o, peggio, per provocare reazioni. Il rischio, in alcune scene che rappresentano il personaggio come inquietante o minaccioso mentre indossa abiti femminili, potrebbe essere quello di riprendere il topos dannoso per la comunità trans (introdotto da Psycho e poi perpetrato da film come Il silenzio degli innocenti) di dipingere personaggi indicati come maschi alla nascita in abiti femminili come killer o figure temibili. Va comunque segnalato il fatto che, nel corso del film, la comunità di drag queen di cui Doug entra a far parte sia sostanzialmente l’unica compagnia umana davvero gentile e accogliente nei confronti del protagonista e che le sue colleghe siano, fatta eccezione per Evelyn, gli unici personaggi davvero simpatici di tutta la vicenda. 

Impossibile non citare, infine, l’altro, indiscutibile protagonista della vicenda, ovvero la famiglia canina di Doug. Per la realizzazione del film sono stati impiegati ben 65 cani. Pur essendo decisamente degno di nota il lavoro svolto dagli allenatori nel far svolgere loro una pletora di compiti disparati e nel gestirne un così grande numero contemporaneamente, l’aura intimidatoria che vorrebbe essere attribuita a queste creature non è sempre ben supportata dal lavoro di regia e montaggio. Alcune scene che dovrebbero apparire ricche di tensione finiscono così, inavvertitamente, per apparire quasi comiche.

Conclusioni

Dogman è un racconto che punta sull’identificazione, da parte dello spettatore, nel suo protagonista sfortunato e nell’abbracciarne sempre di più le ragioni. Il risultato riesce in larga parte grazie all’interpretazione di Landry Jones, ma fallisce una volta che, terminato l’assalto ai sensi della visione, si comincia a riflettere su ciò che si è visto. I difetti nella narrazione (oltre agli esempi già citati, una sezione anche alquanto lunga della storia risulta assolutamente inutile per la storia collettiva) saltano allora all’occhio e vanno a minare il prodotto finito.

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Silvia Strambi,
Redattrice.