Il 17 novembre è approdato nelle sale italiane Diabolik – Ginko all’attacco!, sequel diretto di Diabolik del 2021. Ci troviamo di fronte a una trilogia nata sotto una cattiva stella: la crisi pandemica ha ritardato l’uscita del primo film, già previsto per il 2020, mentre l’annuncio del sequel è stato accompagnato da un’importante scelta di recast. I Manetti Bros. si sono trovati orfani del loro Diabolik, Luca Marinelli, sostituito per l’occasione da Giacomo Gianniotti, attore italo-canadese celebre per la sua partecipazione in Grey’s Anatomy. Detto ciò, sembra che nulla possa andare storto in previsione dell’uscita del terzo e ultimo capitolo della saga. Risulta però impossibile non considerare come già il primo film non abbia riscosso il successo desiderato al botteghino (2,6 milioni incassati a fronte di un budget di 10 milioni di euro), ottenendo peraltro pareri fortemente contrastanti sia da parte del pubblico che della critica. Molto probabilmente la stessa sorte, se non peggiore, toccherà al capitolo preso in esame.
Diabolik – Ginko all’attacco! sembra proseguire sulla falsa riga del primo film, confermandone stancamente i pochi pregi e decisamente i numerosi difetti. Il film si configura, in fin dei conti, come un’opera divisa in due metà ben definite: la prima tutto sommato piacevole, non priva di pecche ma sostenuta da un buon ritmo, da ottime trovate stilistiche e da una sana dose di spettacolarità; la seconda, al contrario, sembra impelagarsi tra i meccanismi di una narrazione fin troppo ingenua e banale agli occhi del pubblico odierno, con una ripetitività delle soluzioni di messa in scena che conduce in maniera stanca verso un finale prevedibile e del tutto privo di pathos.
Una certa dose di indulgenza verso un’ambiziosa produzione italiana aveva portato in molti a chiudere un occhio di fronte alle evidenti mancanze del capitolo precedente. Difficile, invece, mantenere questo atteggiamento nei confronti di una coppia di registi che sembra aver imparato poco e nulla dalla passata esperienza semi-fallimentare. I Manetti Bros., per via della loro passione e della loro riverenza nei confronti del fumetto, hanno deciso di dare vita all’opera creata da Angela e Luciana Giussani senza alcun compromesso. Così tanto il primo film quanto il secondo esibiscono un impianto fumettistico ambivalente. Sono varie le soluzioni felici di messa in scena che si sposano con il tono del film: whip zoom (o zoom a schiaffo) accompagnati da effetti sonori volti a sottolineare dettagli dell’ambiente o reazioni dei personaggi; il taglio di inquadrature come quella del lancio del coltello; l’uso del montaggio e del compositing per la realizzazione di transizioni o dinamiche sequenze in split-screen, che sembrano dare vita all’impaginazione del fumetto.
Al contrario, è ancora più difficile in questo sequel giustificare la tragica recitazione del cast nascondendosi, pretenziosamente, dietro la natura fumettistica del prodotto. Le prove attoriali sembrano più vicine ai modi della declamazione teatrale o della farsa e non sono per nulla coadiuvate da dialoghi tanto surreali da toccare il limite dell’ingenuo e da una regia degli attori che in alcune sequenze rasenta il limite del brutto: non solo la parola, anche le movenze e la corporeità degli interpreti finiscono con l’essere caricatura di sé stesse. L’illogicità di alcune scene porta, inoltre, un effetto di comicità involontaria che avvicina alcuni personaggi ai modelli del cinema slapstick à la Charlie Chaplin e Buster Keaton più che a quelli del cinecomic americano, totalmente estraneo alle logiche inseguite da Manetti Bros.
L’analisi del cast lascia emergere ulteriori problemi narrativi. Giacomo Gianniotti sostituisce Luca Marinelli, la più evidente mancanza di un primo film che si trovava ad avere un attore totalmente svogliato e fuori contesto nei panni del protagonista. Nonostante Gianniotti risulti esteticamente e fisicamente una scelta migliore per impersonare Diabolik, porta a casa un’intepretazione inodore, incolore e insapore, incapace ancora una volta di restituire i tratti caratteristici del personaggio: la tenebrosità, la sensualità, l’imprevedibilità. Miriam Leone non riesce a spiccare per mere ragioni di tempo: se la sua Eva Kant era l’assoluta protagonista del primo capitolo della trilogia, qui rappresenta una figura fin troppo marginale.
Potrebbe sembrare un ragionamento asservito alle logiche del fan service ma forse uno dei problemi principali del racconto è proprio quello di mettere in secondo piano quelli che, nell’immaginario collettivo, sono i due veri protagonisti del fumetto: Diabolik ed Eva Kant. Le loro interazioni appaiono fin troppo sporadiche e inefficaci, eclissando anche quella parvenza di sensualità oscura appena accennata nel film precedente. È evidente già dal titolo, Ginko all’attacco!, come la figura dell’ispettore sia quella maggiormente rilevante all’interno delle logiche di questa pellicola. È però insoddisfacente lo spazio dedicato alla sua sfera personale, con l’introduzione del personaggio di Altea von Vallemberg, ininfluente ai fini della resa cinematografica del racconto. Totalmente privo di interesse è l’amore nascosto e ostacolato dagli eventi tra Ginko e Altea, così come le scene più romantiche e intense (almeno negli intenti dei registi) tra i due.
Il Ginko di Valerio Mastandrea appare convincente, la base più solida dell’intera operazione, mentre Monica Bellucci riveste in maniera fastidiosa i panni di Altea, un personaggio ingombrante perché non inserito in modo intelligente all’interno delle dinamiche del racconto. Anti-estetica la scelta di applicarle un filtro anti-age sul volto, la cui resa ricorda spaventosamente le modalità delle Instagram stories più che la fotografia di un’opera cinematografica. Altri personaggi inseriti in maniera forzata e per nulla convincente all’interno della narrazione sono l’agente Roller interpretato da Alessio Lapice, e l’Elena Vanel di Linda Caridi. Si avverte il tentativo di avvicinare emotivamente gli spettatori verso personaggi fin troppo inetti o la cui funzione narrativa emerge in modo fin troppo plateale per poter anche solo ipotizzare una loro umanizzazione.
Le composizione delle musiche di Pivio e Aldo de Scalzi convince come nel film precedente, un po’ meno il loro utilizzo, fin troppo ridondante e onnipresente. Un grande plauso va fatto a Diodato per Se mi vuoi, canzone originale prodotta per il film, le cui note scandiscono una delle sequenze più sorprendenti dell’intero lavoro: i titoli di testa, un perfetto utilizzo dell’arte del montaggio cinematografico all’insegna delle logiche del videoclip musicale. Ottima la fotografia di Angelo Sorrentino nel valorizzare i rapporti tra il buio della notte e le luci della città, di un faro, delle automobili in corsa (nonostante i Manetti Bros. fatichino a rendere il concitato senso di velocità tipico dei prodotti di questa natura). Paradossalmente la durata della pellicola appare fin troppo dilatata, nonostante prevalga la sensazione di trovarsi dinanzi a risvolti narrativi frettolosi e insoddisfacenti e il montaggio di Federico Maria Maneschi, dunque, risulta incapace nel compito di ritmare un film già narrativamente problematico: basti pensare come ad affossare il ritmo di un finale già privo di mordente, si aggiunga uno spiegone infinito e anacronistico.
In fondo, il più grande problema di Diabolik e Diabolik – Ginko all’attacco! si riconferma l’assenza di spirito critico all’interno dell’approccio autoriale di Marco e Antonio Manetti. Fin troppo trasportati dalla passione per il materiale d’origine, il loro sguardo appare offuscato e incapace di comprendere le falle di una narrazione pensata per un mezzo – il fumetto – e per un pubblico – quello degli anni ’60 – fin troppo distanti dalla produzione cinematografica del terzo decennio del XXI secolo.
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