“A me piace il mare”, afferma in cinese la bella Seo-rae all’inizio di Decision to Leave (Heeojil gyeolsim, 헤어질 결심). Come già accaduto nei finali di Thirst (2009) e Mademoiselle (2016), sarà proprio il mare a essere protagonista nel culmine emozionale del film, l’undicesimo del veterano Park Chan-wook, tra i più tragici e disperati della sua carriera, nonostante sia senz’altro il più sommesso nella messa in scena tra quelli da lui girati. Premiato con il riconoscimento alla regia al settantacinquesimo Festival di Cannes, Decision to Leave è l’opera di un autore pienamente maturo, che sfida il proprio pubblico affezionato con un melodramma raffreddato apparentemente lontanissimo, almeno nei toni, dalle sue focose opere precedenti. Ma partiamo dalla trama, di cui ci limitiamo a rivelare l’incipit.
Il detective Hae-jun (Park Hae-il) lavora nel distretto di polizia di Busan, soffre di insonnia e vede la propria moglie solo nel fine settimana, dal momento che ella risiede per lavoro nella cittadina di Ipo. Un giorno il poliziotto viene incaricato delle indagini sulla misteriosa morte del signor Ki, impiegato in pensione dell’ufficio immigrazione, il cui corpo sfracellato viene ritrovato ai piedi di una montagna che era solito scalare di tanto in tanto. Hae-jun si ritrova ben presto a interrogare Seo-rae (Tang Wei), la giovane moglie del defunto. Cinese immigrata in Corea, dove lavora come badante per anziani, la donna non appare affatto scossa rispetto al destino funesto del consorte e, visti anche i numerosi lividi e ferite che ricoprono il suo corpo, finisce immediatamente per essere sospettata di omicidio dal detective. Hae-jun, tuttavia, rimane presto affascinato dalla bella giovane e, a poco a poco, tra un appostamento e l’altro sotto casa di lei, tra i due si sviluppa un rapporto tenero e ambiguo, che cela sentimenti profondi…
Park, anche sceneggiatore con la fida Jeong Seo-kyeong, realizza una pellicola di straordinaria complessità narrativa che, oltre a intrecciare una moltitudine di trame e sottotrame, rivela il proprio senso soprattutto attraverso i piccoli dettagli. Il rapporto tra Hae-jun e Seo-rae, infatti, rivela la propria natura attraverso un linguaggio tutto implicito, costituito da non detti, incomprensioni e sfumature linguistiche (inevitabilmente appiattite nella versione doppiata), rime e sottili richiami tra i dialoghi… È un film inevitabilmente da leggersi tra le righe, così come lo è la comunicazione tra i due protagonisti, incapaci di capirsi e confessarsi esplicitamente i propri sentimenti perché ingabbiati in un gioco comunicativo a somma zero.
Hae-jun, interpretato da un Park Hae-il inebetito al punto giusto, si lascia sedurre da Seo-rae e dai dettagli che nel suo aspetto e comportamento sottendono una sensibilità che la sua apparenza fredda vorrebbe nascondere. Dal canto suo, Hae-jun la seduce con il cibo, con lo studio notturno della lingua cinese, con le confidenze sul proprio mestiere, con registrazioni audio che suggeriscono la sua ossessione per lei… La sua passione per Seo-rae è un coito costantemente interrotto, in cui l’esito è sempre inferiore alla somma delle parti.
Come in numerose altre pellicole di Park, tuttavia, nulla è veramente come sembra e a metà film una svolta narrativa fondamentale rimescola le carte del racconto, ribalta i destini dei due protagonisti e il rispettivo modo di amarsi e trasforma il personaggio di Tang Wei, attrice straordinaria per le sfumature che riesce a infondere in ogni inquadratura, in una femme fatale così fatale da decretare per se stessa un destino tragico.
Se infatti fino a quel momento la comunicazione tra Hae-jun e Seo-rae avveniva a un livello implicito, nella seconda parte del film cominciano a venire a galla le infinite incomprensioni, i significati sottesi, l’inespresso comunicativo. E Decision to Leave si trasforma nella tragedia di due personaggi che paiono costantemente intenti a cercare di dirsi qualcosa, ma non riescono mai a dirsi tutto, a essere pienamente trasparenti, a non essere mediati (da tecnologie, imbarazzi, secondi fini, intenti manipolatori…) e, in definitiva, a capirsi. Vivono in un costante ritardo comunicativo.
In tal senso, il film di Park diviene anche una riflessione sul rapporto tra tecnologia e i sentimenti: le difficoltà a comprendersi nel presente e le pratiche comunicative stesse e ciò che esse (non) esprimono, infatti, si sedimentano nel tempo grazie ai device. Decision to Leave mette in scena non solo la difficoltà di comunicare il sentimento e la complessità di prendere reale coscienza di ciò che si prova (quando comprendiamo di essere innamorati?), ma anche la persecuzione della tecnologia che, impietosa, registra ogni atto o parola con spaventosa oggettività, ricorda ai protagonisti i propri errori e li sottopone a un costante ritorno al passato, a ciò che (non) hanno fatto e detto, risvegliando così sentimenti inappagati e dolori insanabili.
Park mette in scena questa tragedia altamente contemporanea con una regia di impareggiabile precisione e lucidità: ogni inquadratura pare in costante dialogo con la precedente e la successiva, per composizione, tecnica di montaggio e movimenti di macchina. Pare in questo senso un film pensato integralmente fino nei minimi dettagli e poi messo in scena concretamente con straordinaria dedizione. Si pensi solo alla sequenza del primo appostamento di Hae-jun fuori dalla casa di un’anziana accudita da Seo-rae: un piccolo capolavoro di montaggio dell’ossessione.
Decision to Leave è una pellicola che ripone straordinaria fiducia nei propri spettatori. È infatti un film a cui non è possibile accostarsi con superficialità o approssimazione: è un’opera da dissezionare, la cui grandezza risiede nei mille dettagli e finezze che colmano ogni inquadratura. Non è un film-colpo-di-fulmine: è una pellicola da frequentare a lungo, da vedere e rivedere, che cattura col passare del tempo. Se si ha la pazienza di affrontare questo percorso di “seduzione filmica”, tuttavia, Decision to Leave può diventare uno dei massimi piaceri cinematografici di questo 2023.
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