Un racconto su Wong Kar-wai dovrebbe cominciare con il più classico “c’era una volta”. Non perché il regista non sia più tra noi, anzi, questa recensione di Days of Being Wild ha il compito di celebrare il suo sessantaquattresimo compleanno. Piuttosto, c’era una volta Hong Kong. Prima di essere fagocitata dall’illiberale Repubblica Popolare Cinese, tra gli anni ’80 e ’90 l’ex colonia britannica di Hong Kong emerse con prepotenza e si propose non solo come una delle più grandi industrie cinematografiche al mondo, ma anche, e forse soprattutto, come una fucina di talenti e sensibilità che avrebbero cambiato definitivamente il modo di fare e vedere il cinema, Occidente incluso. Figure registiche caratteristiche di questa Hong Kong New Wave sono sicuramente nomi del calibro di John Woo, Fruit Chan e Ann Hui. È proprio questo il contesto nel quale si inserisce Wong Kar-wai, dirigendo nel 1988 la sua opera prima, As Tears Go By, un gangster movie a metà tra John Woo e il Martin Scorsese di Mean Streets, con uno spiccato gusto mélo e una personalità nella messa in scena che non passa inosservata. I suoi contemporanei capiranno ben presto che, nonostante Wong si inserisca all’interno di un movimento più ampio, egli brillerà di luce propria e sarà praticamente impossibile trovare termini di paragone per definire l’unicità del suo cinema.

Prima ancora di In the Mood for Love e 2046, due tra i suoi più acclamati capolavori, fu proprio il secondo film di Wong Kar-wai, Days of Being Wild, a dare inizio alla trilogia ideale ambientata negli anni ’60. Per Hong Kong si tratta degli anni dell’occidentalizzazione e della ripresa economica, con un benessere acquisito che si fa fautore del malessere dell’individuo, spinto inesorabilmente verso la perdizione e l’incomunicabilità, come ha emblematicamente dimostrato il cinema italiano – da La dolce vita di Federico Fellini a L’avventura di Michelangelo Antonioni.

Il motivo per cui Days of Being Wild, nonostante presenti una messa in scena meno rivoluzionaria di titoli come Chungking Express o In the Mood for Love, rappresenta un passaggio fondamentale all’interno della filmografia di Wong Kar-wai, configurandosi senza troppi problemi come il suo primo vero capolavoro, sta nella sua natura da “manifesto”. Manifesto inteso come dichiarazione di intenti e conquista di una forma, ancora embrionale seppur ugualmente dirompente. In altri termini, è difficile non intravedere in questo film quella che sarà l’opera futura del regista, a partire dalla natura episodica del racconto, con personaggi e situazioni differenti destinati ad incrociarsi senza la consapevolezza degli effetti, il più delle volte indiretti, che l’azione di un singolo possa avere su un perfetto sconosciuto. Tutto ciò sta, per esempio, alla base dei successivi Chungking Express e Fallen Angels, portatori, in misura superiore rispetto al film in analisi, di quella unicità stilistica che imprimerà l’opera di Wong nell’immaginario collettivo, tra soluzioni godardiane, step-printing, fotografia al neon e un utilizzo della colonna sonora poetico e del tutto innovativo (basti pensare a California Dreamin’ in Chungking Express).

Il protagonista del film, Yuddy (Leslie Cheung), è un giovane uomo tormentato dalla scoperta di essere stato adottato e dal successivo rifiuto da parte della madre biologica, privo di qualsiasi appiglio e incapace di intrattenere relazioni sane e durature, come dimostra il suo rapporto con le donne: Su Lizhen (Maggie Cheung) è la prima a prendere la scelta sofferta di scappare via da Yuddy, mentre Mimi (Carina Lau) più ingenua e svampita, sembra perdere il lume della ragione, incapace di voltare pagina. Chi si innamora di Yuddy, una vera calamita per chiunque gli stia intorno, vive un trauma il cui effetto è l’incapacità di amare nuovamente. La sublime Maggie Cheung, simbolo di eterea bellezza e di estrema eleganza in In the Mood for Love, qui appare più semplice, meno curata ed inserita in un contesto di quotidianità priva di stimoli, asfissiante. È inoltre evidente il contrasto tra il personaggio di Yuddy e Mimi, in uno scontro dialettico tra silenzio e frastuono, tra calma apparente e nevrosi, tra sentimenti inespressi e urlati a squarciagola. Lo scenario più suggestivo, in termini emotivi e registici, sarà comunque l’incontro e l’amore non corrisposto tra la già citata Su Lizhen e Tide (Andy Lau), un poliziotto cui la malattia della madre ha tarpato le ali e con il sogno di viaggiare per mari in veste di marinaio. L’esplosione di violenza, il climax dell’azione presente in quasi tutti i film del regista, arriva nel tragico finale (che riporta alla mente, seppur brevemente, le vicende di As Tears Go By), che rivelerà, non troppo velatamente, la metafora legata al protagonista: la parabola di un uccello senza zampe che può atterrare una sola volta: il giorno della sua morte; con la consapevolezza che, per via di questo volo incessante, in realtà, nessuna meta sia mai stata realmente raggiunta.

In fondo Days of Being Wild è un affresco animato da personaggi incapaci di vivere il presente, proiettati verso un passato paralizzante o un futuro inafferabile; un dramma fatto di silenzi frastornanti e di parole incapaci di esprimere alcunché. Un racconto portato avanti attraverso un montaggio disteso, fatto di long-take che privilegiano la profondità di campo, movimenti di macchina delicati ed espressivi. L’interesse principale di Wong Kar-wai sta nel catturare da vicino i volti e i corpi dei suoi personaggi, tanto da farli risultare tangibili, concreti, ma allo stesso tempo inafferrabili, proprio come il loro stratificato mondo emotivo. Nello specifico, come di consueto nella filmografia dell’autore, i corpi delle donne sono fotografati con rispetto, finezza e latente erotismo. La cupa e malinconica fotografia, desaturata e tendente al verde, si unisce ad un’atmosfera in cui la pioggia onnipresente sembra trasportare il mondo interiore dei personaggi verso l’esterno. Il talento di Wong Kar-wai sta nel racchiudere quanto descritto fin’ora in semplici gesti, suoni, momenti che diventano emblema di una condizione più ampia: il non voltarsi indietro di Yuddy per non mostrare il proprio volto, a sua volta negato dalla madre biologica; un telefono che squilla all’interno di una cabina telefonica; il tenere gli occhi aperti nel momento del trapasso. 

Non è dunque un caso il fatto che questo film sia entrato di diritto nell’immaginario degli addetti ai lavori e dei cinefili incalliti, tanto che Nicolas Winding Refn in Drive riprende, quasi pedissequamente, la scena in cui Yuddy in un camerino intimidisce il toy-boy della propria madre adottiva con un martello; inoltre le similitudini tra il personaggio di Ryan Gosling e quello di Leslie Cheung si sprecano, entrambi sono silenziosi, enigmatici, romantici, pronti ad esplodere in un’ondata di violenza senza precedenti.

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Alessandro Corrao, Redattore