Viene presentata per la prima volta nei 72 anni di storia del Trento Film Festival una pellicola horror: si tratta di Cuckoo, in uscita nelle sale italiane a partire dal 2 maggio.

Il film si lega al leitmotiv del Festival, montagne e culture, attraverso le suggestive ambientazioni: siamo nelle alpi germaniche in una località turistica circondata da alberi dalle tonalità Twin Peaks-iane. Una strada di montagna solitaria è l’unico collegamento tra questo non-luogo austero e qualsiasi altro segno di civiltà. È in questo contesto che la protagonista (interpretata da Hunter Schafer) si ritrova costretta a passare la vacanza con suo padre e la sorellastra, la quale mostra da subito segni disturbanti di un possedimento da parte di una forza esteriore. Il signor König (interpretato da Dan Stevens), proprietario dell’hotel in cui è ambientata la vicenda, inizierà a manifestare un inquietante interesse per quest’ultima, risultando in un acceso confronto finale tra personaggi reali e non.

Il film, di produzione tedesca, imita uno stile tutto americano di costruzione dell’horror: dagli attori in primis alla scelta della one-location, dalle rivelazioni man mano più orrificanti seminate per la trama alle vibes che ricordano Stranger Things ai suoi esordi, tutto è un tentativo di rimandare a un già visto e già fatto. La pellicola risulta un mediocre tentativo di unire il genere horror a uno stile aggrazziato iper-saturato, in una fallita imitazione di uno stile anni ottanta gradevole agli occhi capace di attrarre pubblico da un trailer, ma non di appassionarlo al mondo che tenta di costruire. La sceneggiatura, del resto, non regge il gioco, presentando non pochi buchi di trama e nessun guizzo creativo rispetto al genere, facendo cadere il film nel dimenticatoio. La sfida impossibile di imitare un prodotto americano ha un discreto successo, ma è quello stesso tentativo a farci chiedere se è questo il massimo a cui il cinema europeo può davvero ambire.

Brillano invece le performance di Hunter Schafer, straziante senza risultare stuccevole, e Dan Stevens, che i panni dello pscicopatico sembrano essergli cuciti addosso.

E poi, soprattutto, c’è un needle drop in crescendo che è la fine del mondo: Il Mio Prossimo Amore di Loretta Goggi fa da sottofondo alle scene finali del film, in un momento rallentato nel tempo che ricorda vagamente In Ginocchio da Te di Gianni Morandi in Parasite. C’è dunque un po’ d’Italia che fa sorridere e ci ricorda che siamo di fronte a una produzione non lontana dai nostri confini, e per cui andare tutto sommato fieri. Sono però queste meravigliose note a ricordarci che il potenziale era a portata di un’ottima sequenza, ma c’è stata troppa paura di osare, cadendo in una regia troppo “sicura”. E se c’è un genere su cui buttarsi, magari è proprio questo. Forse l’Europa dovrebbe tentare più innovazione e meno imitazione.

Lara Ioriatti,
Redattrice.