Una storia semplice e lineare ma ben lontana dall’essere debole o superficiale. Creature di Dio (God’s Creatures) si apre con la tragedia di una morte in mare, quella di un giovane pescatore di uno sperduto paesino della costa irlandese fermo nel tempo e nelle sue tradizioni, e si chiude con una presa di coscienza, con un ritorno alla superficie che lascia boccheggianti. Saela Davis (al suo debutto alla regia) e Anna Rose Holmer (che qui firma il suo secondo lungometraggio) confezionano un dramma psicologico buio e a tratti faticoso, capace di immergere lo spettatore in un lento climax ma che forse pecca nella scelta dei tempi della narrazione. 

Comunità e omertà

Presentato durante la 75esima edizione del Festival di Cannes, Creature di Dio ha come protagonisti Emily Watson e Paul Mescal, che sullo schermo sono accompagnati da Aisling Franciosi, Toni O’Rourke e Declan Conlon. Watson e Mescal interpretano rispettivamente Aileen e Brian, madre e figlio che si ritrovano nel paese d’origine quando Brian torna dopo aver trascorso un lungo periodo in Australia. Il villaggio in cui si svolge la vicenda vive grazie all’industria della pesca, con gli uomini che pescano o allevano ostriche e la maggior parte delle donne che lavora in un impianto di lavorazione del pesce. Brian torna nell’immutata cittadina che ha lasciato tempo fa con l’intento di riavviare l’allevamento di ostriche del nonno, ma le difficoltà dell’attività e un’improvvisa accusa di stupro mossa contro di lui da Sarah (ex di Brian e collega di Aileen) daranno il via a un susseguirsi di bugie e comportamenti omertosi che turberanno i precari equilibri della famiglia e dell’intera comunità.

Dal giovane padre in lotta con la depressione in Aftersun al ruolo di figlio ormai adulto ma incapace di crescere veramente, di agire onestamente e di affrontare colpe e responsabilità, Paul Mescal è convincente nel ruolo di Brian e riesce a dar vita a un personaggio che oscilla tra l’inettitudine e lo sprezzante menefreghismo. A bucare lo schermo è però Emily Watson, madre apprensiva che copre le azioni del figlio ritrovandosi ad essere prima complice perlopiù in buona fede per poi ergersi a giudice (prima di tutto di sé stessa) quando si costringe a decostruire e ridisegnare l’immagine che aveva del figlio. E così l’equilibrio già precario della famiglia appena riunita si tende fino a spezzarsi quando Aileen, togliendosi la patina di noncurante omertà dagli occhi, smette di proteggere a tutti i costi l’amato figlio minore e si scontra con l’uomo che questi è diventato. 

L’accusa di stupro non si ripercuote però solamente sugli equilibri interni della famiglia: la piccola comunità del paese, infatti, accusa il colpo ma è ben lunghi dal condannare l’accaduto in maniera coesa. Accade così che, in un clima di bigottismo e arretratezza sociale, sono poche le persone che si stringono debolmente attorno alla vittima, mentre la maggior parte preferisce ignorare i fatti o non porsi domande pur di proseguire con la lenta, tradizionale e tranquilla vita di un paese dove “ogni casa ha gli stessi fantasmi” che però preferisce ignorare.

Un dramma di atmosfere

Creature di Dio è un film di atmosfere più che di accadimenti. Fin dall’incipit del film siamo immersi fino al collo (e forse ben oltre) nel villaggio costiero in cui si svolge la vicenda. Il tempo è uggioso, umido, e una cappa di nuvole ci impedisce di vedere il sole. Tutti gli abitanti del villaggio vivono e lavorano grazie alla pesca e basano la loro vita e le loro giornate sull’andamento delle maree, e in qualsiasi ambiente è chiaramente percepibile l’odore pungente del pesce, che si impregna nei vestiti, che ci si porta a casa dal lavoro e non ci si riesce mai a lavare di dosso. Il villaggio vive di tradizioni tramandate di generazione in generazione così come le case, così come l’assurda usanza di non insegnare ai figli a nuotare per non renderli un domani moralmente obbligati a tuffarsi per salvare l’ennesimo pescatore che rischi la vita in mare. Nel cercare così insistentemente di portare in sala determinati ambienti e atmosfere, il film sceglie volontariamente di diluire molto i tempi del racconto. Così, visto che come si diceva in apertura le vicende narrate sono bel lontane dell’essere particolarmente articolate o complesse, la regia si prende tutto il suo tempo per introdurci nei luoghi del film e nelle loro dinamiche, trascinandosi in modo eccessivo per tutta la prima parte (una lunghissima introduzione in cui sostanzialmente accade ben poco) e indugiando su inquadrature e situazioni spesso e volentieri in maniera eccessiva.

Anche la fotografia scura e ben curata da Chayse Irvin e i movimenti di macchina lenti e protratti nel tempo acuiscono questo senso di staticità, e i lentissimi zoom in e out che ricorrono per tutto il film, seppur funzionali alla narrazione e all’introspezione psicologica dei personaggi, a lungo andare affaticano e diventano ridondanti e ripetitivi, proprio come l’andamento delle maree che àncora la vita del paese a un eterno ripetersi di giornate tutte simili tra loro.

Altro protagonista volutamente ingombrante – ma questa volta indovinato – è senza dubbio il sonoro: martellante e ansiogeno riesce a infondere un poco di ritmo in una narrazione che altrimenti rischierebbe di risultare perlopiù fiacca. 

Creature di Dio, in conclusione, riesce nel suo intento di portarci dove vuole, proprio lì in quei ritagli di costa irrimediabilmente destinati all’alienazione e al grigiore umido dei luoghi ripiegati su sé stessi e che non conoscono altro al di fuori di sé, ma nel farlo si dimentica che lo spettatore forse non reggerebbe una settimana in quei luoghi dimenticati da Dio e che probabilmente un po’ più di verve non avrebbe guastato.

Anna Negri
Anna Negri,
Vicedirettrice editoriale