Copenhagen Cowboy, la nuova serie tv di Nicolas Winding Refn presentata fuori concorso alla 79a edizione della Mostra del cinema di Venezia e disponibile dal 5 gennaio su Netflix, mescola arti marziali, maiali, gangster movie, horror e noir ed è la naturale evoluzione della visionaria concezione artistica del regista, l’approdo definitivo (termine non casuale: in danese “Copenaghen” significa “porto dei mercanti”) di un percorso artistico che già con Too Old to Die Young aveva paventato di non poter fare altro che abbracciare l’arte contemporanea. Una deriva per alcuni, un traguardo unico e prezioso per altri, un’esperienza polarizzante e di difficile fruizione ma affascinante per chi è disposto a lasciarsi trasportare dai flussi onirici e contemplativi del regista danese.
La moglie di Refn, Liv Corfixen, è tornata ad affiancare il marito dopo le brevi comparse in Pusher e Bleeder ma questa volta in veste di produttrice, mentre le due figlie Lola e Lizzielou hanno trovato spazio come attrici.
NUOVI ORIZZONTI SERIALI
La serie narra le vicende della misteriosa giovane eroina Miu (Angela Bundalovic), che dopo essere riuscita a fuggire da una vita di schiavitù deve attraversare lo spietato mondo criminale di Copenhagen. Assetata di vendetta e in cerca della sua nemesi Rakel (Lola Corfixen), il cammino di Miu attraverso la malavita danese si accosterà a quello del cupo Nicklas (Andreas Lykke Jørgensen) e dovrà affrontare ostacoli tra il naturale e il paranormale.
Refn si sposta da Amazon a Netflix e abbrevia anche la durata: Too Old to Die Young contava 10 episodi per un totale di 758 minuti, mentre Copenhagen Cowboy conta appena 6 puntate dipanate in 336 minuti. La riduzione di minutaggio è significativa perché si allontana da quella di una vera e propria serie televisiva avvicinandosi di più alla durata di un film-fiume e sottolineando come nella contemporaneità, anche grazie alle nuove modulazioni narrative messe in atto da Refn e colleghi, si stia sgretolando sempre di più quel labile confine fra serialità e cinema (processo i cui prodromi sono ovviamente rintracciabili in Twin Peaks, che infatti condivide più di un punto in comune con il lavoro di Refn). Se l’aggettivo “cinematografico” ha sempre avuto determinati tratti riconducibili alla visione su grande schermo (ed è fondamentale rimarcare la sua indubbia importanza ancora oggi), forse però il cinema sta prendendo pieghe e vie inaspettate divenendo talvolta un audiovisivo che per forma e sostanza sincretizza l’estetica d’autore (tipicamente relegata alla sala cinematografica) con la durata e la fruizione proprie del piccolo schermo. Esigenze artistiche o produttive?
A meno che non si rigetti in toto la complessità di pensiero, vedendo opere come Copenhagen Cowboy (ma anche We Are Who We Are di Guadagnino oppure, per guardare più indietro, The Kingdom di Von Trier) è difficile dare una risposta certa e univoca. Sicuramente resta il rammarico di non poter fruire di certi prodotti al cinema.
Nel caso di Refn, dal punto di vista commerciale gli sarebbe convenuto proseguire la via del grande schermo? Perché non replicare la formula-Drive (film che ha incassato 81 milioni di dollari a fronte di 15 milioni di budget)? Però il suo ultimo film uscito in sala, The Neon Demon, è stato un vero flop (appena 3,4 milioni di incasso su un budget che ammontava al doppio), che si sia “venduto” alle piattaforme streaming (come direbbero i puristi del Cinema con la “C” maiuscola)? Anche qui, è difficile rispondere.
Ciò che possiamo fare è guardare le sue opere e trarre parziali conclusioni.
OMNIA VINCIT IMAGO (l’immagine trionfa su tutto)
Quello che è indubbio è che Copenhagen Cowboy necessitava assolutamente di tale durata. Già nel 2013 con Only God Forgives era iniziato l’atto di dilatazione dei tempi nel cinema del regista danese (o meglio: delle inquadrature), e anche con i successivi The Neon Demon e Too Old To Die Young si è avvicinato a una narrazione rarefatta e che procede per simil-tableaux vivants piuttosto che seguire uno storytelling classico. Dialoghi ridotti all’osso, inquadrature lunghe ed estatiche, paranormale e naturale sempre in giustapposizione: riti, streghe, mostri e fantasmi non sono mai palesati ma sempre inseriti in contesti urbani e quotidiani che nulla hanno a che vedere con gli ambienti gotici e dell’orrore tradizionali. Sono stati l’uso espressivo della luce (ricordiamo la splendida sequenza di The Neon Demon dove i neon segnavano il passaggio al lato oscuro della protagonista), le musiche e gli avvolgenti tappeti sonori di Cliff Martinez assieme alla ricercatezza estetica di ogni singola inquadratura a decretare l’inno al pragmatismo di Refn: un vero e proprio statuto dell’immagine dove “omnia vincit imago” (per scimmiottare il famoso verso virgiliano), perché Copenhagen Cowboy è di difficile incasellamento in qualsiasi griglia artistica tuttora predeterminata (figuriamoci nei generi cinematografici). Se l’aspetto preponderante dell’arte contemporanea è la sua difficile definizione critica, Refn gli si avvicina creando una sua concezione di temporalità filmica e di narrazione che si aggrappa con unghie e artigli alle singole inquadrature e ne protrae il tempo a dismisura (o con camera fissa, o con lunghissime carrellate orizzontali) per parlare allo spettatore attraverso le immagini piuttosto che con i dialoghi.
UNA PARABOLA FEMMINISTA
Copenhagen Cowboy – opera di un regista da sempre attento alla contemporaneità – è una revenge story femminista in cui i maschi sono esplicitamente assimilati ai maiali (simbolica la sequenza d’apertura nel porcile, per arrivare addirittura a sentir grugnire uno scagnozzo malmenato) e ostinatamente ossessionati dalla fallocrazia; si intrecciano numerosissime influenze: anche qui come in The Neon Demon c’è l’ossessione quasi metacinematografica di certi personaggi per il corpo e l’estetica (che sia un modo per Refn di esorcizzare la sua ricercatezza nell’immagine?) filtrata attraverso un horror velato e mai esplicito, per esempio viene domandato a Miu se lei non sia un “Gui” (denominazione dei fantasmi secondo la tradizione cinese), e la natura di certi vampiri è suggerita dal fatto che chiamino “castello” la loro dimora; la serie appare così come un sequel concettuale e spirituale di Too Old to Die Young che non a caso intitolava ogni puntata con il nome di alcuni arcani maggiori dei tarocchi (fra l’altro si apriva con Il Diavolo e chiudeva con Il Mondo, quasi a segnare una nuova “cosmogonia refniana”).
Si passa di nuovo attraverso intricati rapporti materni che ci riportano con la mente a Only God Forgives, lavoro da cui nasce anche la tensione di Refn verso il western (“cowboy” compare anche nel titolo), perché se già Valhalla Rising e Drive presentavano personaggi taciturni e silenziosi è dal film del 2013 che cominciano ad assumere un’importanza cardine gli sguardi fra i personaggi (enfatizzati dalla durata delle inquadrature: qui addirittura basta uno sguardo di Miu per far pentire un personaggio del suo passato), trasformando i protagonisti in cavalieri metropolitani solitari.
A rimarcare il ruolo di Only God Forgives come opera spartiacque nella filmografia del regista tornano anche le arti marziali mescolate al gangsterismo (“Come si smette di essere un gangster?”), insolitamente permeati della logica dell’attesa e della sospensione che costituisce un filo tesissimo destinato a spezzarsi da un momento all’altro, lasciando esplodere impeti di estrema violenza enfatizzati dai suoni appositamente esagerati e innaturali dei colpi (un uso espressivo del soundscape che spedisce la nostra mente alle invenzioni più prettamente lynchiane).
Refn con Copenhagen Cowboy aggiusta il tiro rispetto a Too Old to Die Young sperimentando di nuovo col mezzo seriale e ridimostrando come i critici debbano necessariamente confrontarsi e indagare le linee di separazione e di connessione fra cinema e serie, perché la distinzione comincia a sfumare sempre di più e in futuro chissà che non si arrivi a nuove teorie del cinema e della serialità; ora è ancora troppo presto ma ad ogni modo il regista danese ha abbandonato definitivamente la narrazione classica e con essa – forse – una bella fetta di pubblico (coloro che si aspettavano un’evoluzione del suo cinema che seguisse le scie del successo di Drive), sancendo il suo personale statuto dell’immagine e la sua vocazione al pragmatismo, attraverso un’opera femminista che rifugge qualsiasi schematismo e fonde visionariamente il western, l’horror, il neo(n)-noir, il gangster movie e i film di arti marziali.
La sua importanza nel contesto mediale e audiovisivo contemporaneo sarà sancita soltanto dal passare degli anni: resterà nell’immaginario collettivo o si perderà nel tempo “come lacrime nella pioggia”?
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