Comandante è il quinto lungometraggio portato a compimento da Edoardo De Angelis in appena dodici anni, giovane regista italiano che si è aggiudicato il premio per la Miglior sceneggiatura originale ai David di Donatello del 2017 grazie a Indivisibili, mentre l’ultima fatica, Il vizio della speranza, gli è valsa il Premio del pubblico BNL alla Festa del Cinema di Roma del 2018.

Sostituendo Challengers di Luca Guadagnino – che non parteciperà alla Mostra per decisioni della produzione a seguito dello sciopero indetto il 13 luglio dal sindacato degli attori americani Sag-Aftra – il film con protagonista Pierfrancesco Favino è il nuovo film d’apertura della 80. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, dove viene presentato in Concorso.

Pierfrancesco Favino nei panni del capitano Salvatore Todaro

Una guerra intimista

16 ottobre 1940: il capitano Salvatore Todaro è al comando del sommergibile Comandante Cappellini. Dopo essere stata colpita dai colpi di un piroscafo mercantile belga, la flotta italiana lo affonda a largo dell’Atlantico. Todaro deciderà di salvare i 26 naufraghi belgi e di esporsi al fuoco nemico navigando in emersione per tre giorni e, di conseguenza, rischiando la vita.

Inserendosi nel filone sommergibilista di film come Caccia a ottobre rosso di John McTiernan o il fluviale Das Boot di Wolfgang Petersen, Comandante decide di intraprendere una strada più intimista rifuggendo la spettacolarizzazione del conflitto bellico. Anzi, escluso l’affondamento della flotta belga non c’è traccia della guerra perché il conflitto è umano, scegliere se tendere la mano al nemico o se lasciarlo in balia delle onde dell’Atlantico. De Angelis tenta di sfruttare gli angusti spazi del sommergibile al servizio della Regia Marina come spazio di riflessione per un messaggio umanista e solidarista che vada contro quell’eroismo barbaro citato dallo stesso Todaro nelle lettere alla moglie Rina (“Il soldato che vince non è mai così grande come quando si inchina al soldato vinto: oggi noi e i nostri nemici, insieme, ci siamo salvati”).

Sorge quasi il dubbio, all’inizio, che il sommergibile Comandante Cappellini non emani un’aura sacra: “non si può mai sapere” ripete Favino prima di immergersi ai suoi sottoposti, uno ad uno, proprio come fosse un sacerdote, come se la preparazione alla tratta marittima e il monito di poter non tornare vivi avesse carattere liturgico. Una liturgia frenata da un monito duro e secco del capitano (“Chi piange lo butto in mare!”) che gioca ovviamente con il suo cambiamento successivo e la scelta di salvare la flotta belga, disobbedendo alle leggi militariste imposte dal regime fascista

Lo scontro con il piroscafo mercantile belga

Favino – ora in scena con accento veneto dopo aver recitato con accento mediorientale in Nostalgia di Martone – interpreta con il suo solito e grande carisma un personaggio dotato di una forza d’animo tale da preferire l’etica alle spietate norme belliche e qui arriva, ovviamente, l’elefante nella stanza: le domande in conferenza stampa hanno subito fatto riferimento a quanto sta accadendo ora, probabilmente proprio in questo momento, nel Mar Mediterraneo; l’analogia con la questione porti aperti? o porti chiusi? è lapalissiana, ma il film ha la forza in grado di soddisfare tutte le premesse e di mantenere le altrettante promesse?

Premesse e promesse

E’ vero che, per chi desidera trovarlo, non è difficile individuare il nesso con la questione migratoria contemporanea, ma se si va a fondo della sceneggiatura di Comandante emerge che, in realtà, il legame è esclusivamente extratestuale e abbastanza forzato: il film non pare avere una scrittura in grado di reggere sulle spalle una tematica di tale portata dal momento che, nonostante 120 minuti a disposizione, né la flotta italiana né quella belga sono mai indagate a fondo (per non parlare del fatto che nel film i primi ad attaccare sono i belga, che sarebbero invece dovuti restare neutrali nel conflitto mondiale, come sottolineato da Todaro); il rischio di scadere nella retorica degli “italiani brava gente” è concreto (“Siamo italiani!” esclama fieramente il capitano), ed è un peccato che non si sia riusciti ad approfondire la psicologia dei personaggi. Allo scorrere dei titoli di coda si ha la sensazione di non sapere quasi niente dei protagonisti, a partire dai loro rapporti con le rispettive mogli, indagati a inizio film (per non dire appena accennati) e mai più ripresi. Era interessante anche vedere come sarebbe stato portato avanti il tema del costante isolamento a cui sono obbligati i marinai, sempre pedinati dal rischio di morire in mare con conseguente oblio dei loro corpi sepolti sotto la sabbia; in effetti, forse, questa fobia degli uomini di mare è l’argomento che emerge di più dallo script di Carmine Guarino (lodevole la scelta di non lesinare nemmeno visivamente sulla loro sofferenza fisica), sebbene l’onnipresente voice over che ha l’intento di fare emergere i loro pensieri toglie potenza poetica alle sequenze più tese, dove il completo silenzio interrotto soltanto dal frangersi delle onde del mare avrebbe suggerito ancora di più il clima paradossalmente claustrofobico e di segregazione a cui li costringe il mare aperto.

L’interno del sommergibile Comandante Cappellini

Fa riflettere, inoltre, che in un film che affronta con tono solenne e con passo austero questioni tanto spinose anche per il contemporaneo, le parti capaci di solleticare per pochi minuti le emozioni degli spettatori siano quelle comedy, in particolare quelle che coinvolgono il cuoco della flotta (ma più in generale tutta la parte culinaria: c’è un divertente sipario dove protagoniste sono le patatine fritte belga).

De Angelis è dotato di buonissima tecnica e la direzione degli attori è ottima, ma il sottotesto del film risulta essere abbastanza banale, scarno di riflessioni e mai affrontato col mordente di penna necessario ad avviare per davvero una riflessione sensata sull’approccio umanista e solidarista del capitano. 

Alberto Faggiotto
Alberto Faggiotto,
Caporedattore.