CODA – I segni del cuore è un film del 2021 diretto e sceneggiato da Sian Heder, qui al suo secondo lungometraggio dopo il poco conosciuto Tallulah, film Netflix del 2016. Questa pellicola, candidata agli Oscar nelle categorie Miglior Film, Miglior attore non protagonista e Miglior sceneggiatura non originale, è un remake del film francese La famiglia Bélier (Éric Lartigau, 2014). La storia racconta la vita dei membri della famiglia Rossi, il padre Frank (Troy Kotsur), la madre Jackie (Marlee Matlin), il figlio maggiore Leo (Daniel Durant) e la figlia Ruby (Emilia Jones), quest’ultima vera protagonista del film e attorno alla quale ruota l’intera vicenda. I Rossi sono dei pescatori sordi del Massachusetts, tra di loro solo la figlia Ruby è udente, ed è proprio per questo motivo che su di lei ricadono molte -troppe- responsabilità: è costretta, fin da giovanissima, a partecipare alle sessioni di pesca con il padre ed il fratello, in quanto è necessario, per legge, avere almeno un membro dell’equipaggio udente a bordo. Ruby, che ha solo 17 anni, si sente costantemente intrappolata in un limbo tra la comunità dei sordi -di cui fa comunque parte in quanto membro della sua famiglia- e il resto della popolazione della piccola cittadina in cui abita. Ci viene presentata come una ragazzina con pochi amici, che non gode di alcuna popolarità a scuola dove, al contrario, viene presa spesso in giro per la puzza di pesce o per la disabilità dei suoi parenti più stretti. La sua unica valvola di sfogo è il canto: spinta dall’amore per un ragazzo e dall’aiuto di uno stravagante professore (interpretato da Eugenio Derbez) intraprenderà questa strada che le permetterà di sconfiggere le proprie paure e trovare quell’indipendenza a lungo cercata, fino alla difficile scelta: seguire i propri sogni o rimanere ad aiutare la propria famiglia?

La vita quotidiana dei Rossi è scandita da momenti di comicità -dati, ad esempio, dal rapporto quasi adolescenziale tra la madre e il padre-, gesti d’amore e comprensione, ma anche da litigi e contrasti, soprattutto tra Ruby e i suoi genitori. Tutti elementi, questi, che risultano fondamentali nel delineare il ritratto di una famiglia sfaccettata e complessa, alla pari di una qualsiasi famiglia americana media, la cui esistenza e i rapporti interni appaiono condizionati dalla loro disabilità. La figura della figlia Ruby è centrale nel film ma anche nella vita dei suoi genitori e di suo fratello: senza di lei a fare da interprete, i Rossi sarebbero ancora più emarginati dal mondo. Una dipendenza che porterà ad uno scontro tipico dei drammi adolescenziali tra la figlia ed il resto della famiglia. Il cast rappresenta senza dubbio la parte migliore di questo film: in particolare Troy Kotsur e Marlee Matlin, che interpretano rispettivamente il padre e la madre di Ruby, sono perfettamente calati nella parte e in grado di far emozionare ed empatizzare lo spettatore, probabilmente anche perché non sono degli attori che interpretano dei personaggi sordi, ma sono effettivamente dei membri di quella comunità. Ma una menzione va fatta anche a Emilia Jones, la giovane interprete della protagonista, bravissima ad immergersi in un ruolo così complicato e a dare spazio alle sue qualità canore. Altro aspetto positivo della pellicola è senza dubbio la musica e le canzoni presenti, così come i momenti in cui queste vengono cantate dalla protagonista: dalla scena in cui Ruby e il ragazzo di cui è innamorata cantano schiena contro schiena, fino alla sequenza in teatro nella parte finale del film.

Purtroppo però, le note positive finiscono qui. Fin dall’inizio, infatti, il film ci appare come un’opera a dir poco convenzionale, la cui unica differenza con altre decine di teen drama simili è la presenza di soggetti e attori/attrici facenti parte della comunità dei sordi. I cliché e le banalità si sprecano -vedi il rapporto tra la protagonista ed il professore, o ancora la storia d’amore tra i due teenager-, facendo apparire il percorso che Ruby andrà a compiere già ampiamente prevedibile fin dalle primissime scene. Anche in quella che dovrebbe essere il suo punto di forza, ovvero la rappresentazione di soggetti non udenti, il film non riesce pienamente nel suo intento: nonostante alcune scene e dialoghi ci fanno intuire quanto possa essere difficile per una famiglia con questa disabilità essere parte integrante di una comunità, il film non calca mai la mano e non va mai fino in fondo nel mostrarci le grandi difficoltà di chi ha una disabilità di questo tipo. La storia mostrata è troppo buona, troppo pulita. C’è da dire che questo non è assolutamente un film di denuncia, ma un (fin troppo) classico Coming of Age, una storia in cui il dramma adolescenziale di Ruby è al centro della vicenda, mentre tutto il resto è di contorno. Una scelta che, però, non giova al risultato finale del film.

Regia e fotografia risultano piatte, convenzionali, quasi anonime. Il comparto tecnico sonoro è in generale male utilizzato, ad eccezione di quella scena in teatro che abbiamo menzionato sopra, in cui -finalmente- la disabilità dei genitori viene mostrata in maniera intelligente e commovente. Facendo il paragone con Sound of Metal, un altro film recente che rappresentava delle tematiche molto simili -in modo più emozionante ed interessante-, l’utilizzo del sonoro di CODA non può che risultare deludente.

Se dovesse capitarvi di vedere questo film una domenica pomeriggio, in seguito ad uno zapping annoiato, probabilmente non ne rimarreste così delusi. Tuttavia, non si riesce a capire come quest’opera non solo possa essere candidata agli Oscar come Miglior film, ma sia anche considerato il secondo favorito per la vittoria dopo Il potere del cane.

Un film mediocre insomma, che lascia lo spettatore con l’amaro in bocca per una storia trita e ritrita che non sfrutta a pieno le sue potenzialità. Una trama così convenzionale da risultare più adatta ad un pubblico di bambini o ragazzini piuttosto che ad una platea di spettatori adulti. La vita non è una favola, come quest’opera vorrebbe farci credere.

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Rosario Azzaro, Direttore editoriale