A24: un nome che è ormai da qualche anno sinonimo di un cinema diverso, indipendente e, per certi aspetti, innovativo. La casa di produzione americana, infatti, si è messa in mostra nell’ultimo decennio con pellicole riuscitissime come The Lighthouse di Robert Eggers (2019), Il Sacrificio del Cervo Sacro di Yorgos Lanthimos (2017) e Moonlight di Barry Jenkins (2016), ovvero progetti in cui le parole d’ordine sono – indubbiamente – libertà autoriale, grande impatto visivo e mentalità indie.

Grazie a questo approccio, la A24 è diventata ben presto un outsider importante nell’industria hollywoodiana contemporanea, proponendo un cinema slegato dalle dinamiche del blockbuster, ma comunque capace di catturare l’attenzione degli spettatori cinephile e non, ottenendo un grande successo, sia di pubblico sia di critica, e guadagnandosi un’ottima reputazione.

Proprio per questo motivo C’mon C’mon, diretto da Mike Mills (già candidato all’Oscar come sceneggiatore nel 2017 per Le donne della mia vita), era uno dei film più attesi di questo 2022, anche grazie alla presenza di Joaquin Phoenix nel ruolo del protagonista, qui nel primo ruolo post statuetta vinta per Joker nel 2020.

Il film, in breve, racconta la storia di Johnny, interpretato appunto da Phoenix, il quale è uno speaker radiofonico che si ritrova a dover badare a Jesse, il figlio di nove anni della sorella, in seguito a varie tragedie familiari che hanno scosso la sua stabilità emotiva. In questo rapporto, a metà strada tra conflittualità e tenerezza, l’uomo troverà –  forse – un nuovo possibile inizio, una bussola per orientarsi di nuovo nella sua vita. 

Il film risulta, a primo impatto, perfettamente coerente con l’immaginario condiviso dai film della casa di produzione newyorkese e presenta tutte le caratteristiche di un classico A24 movie: un approccio che tenta di spingersi verso l’autorialità, oltre a un aspetto visivo ben definito e immediatamente riconoscibile, ma è sufficiente questo per rendere questo C’mon C’mon un progetto interessante e – soprattutto – veramente d’autore? 

Andando con ordine, il primissimo elemento che colpisce l’occhio è la scelta di girare il film in bianco e nero, elemento che sicuramente rende il film peculiare rispetto alla grandissima parte della produzione contemporanea e che, idealmente, dovrebbe contribuire a creare un’atmosfera tra il malinconico e il retrò, ma che nella realtà dei fatti si rivela essere un espediente abbastanza inutile, autoreferenziale e forzatamente calligrafico. Come se non bastasse, la fotografia gioca male con il B&W stesso, non riuscendo quasi mai a regalare chiaroscuri interessanti (eccezion fatta per qualche bel primo piano su Phoenix), appiattendo così tutte le sfumature di grigio, che risultano in un bianco e nero veramente poco riuscito e monotono.

Oltre a ciò, la regia di Mills è generalmente anonima e si limita a far osservare “da fuori” allo spettatore le varie scene, senza riuscire mai a farlo entrare veramente nel mondo di Johnny e Jesse e laddove questa distanza può essere comunque interpretata come una scelta precisa, restano ugualmente dubbi sull’impianto registico, che non brilla certo per guizzi visivi e non regala momenti di intensità particolari, nemmeno quando forse sarebbe stata necessaria. 

La sceneggiatura, anch’essa curata da Mills, si rivela essere molto più banale di quanto il film voglia far credere, mettendo in scena l’ennesima storia di un adulto allo sbando che ritrova sé stesso grazie a un bambino, il quale prendendo il mondo con ingenuità e candore, lo mette di fronte alla propria sofferenza, costringendolo così ad affrontarla e a superarla. Nel mentre, il più scontato arco narrativo possibile prende forma sullo schermo e tra i due si viene a creare un legame indissolubile, il quale all’inizio è – ovviamente – faticoso, ma che man mano che il minutaggio scorre diventa sempre più profondo, senza che i protagonisti se ne rendano conto. 

Il fatto che la storia sia, fondamentalmente, la più classica del mondo non è necessariamente un difetto, lo diventa però nel momento in cui questa narrazione canonica, che avrebbe potuto avere comunque sbocchi interessanti o momenti di emotività autentici, viene mascherata da racconto d’autore tramite l’utilizzo di un voice over posticcio e – di fatto – controproducente per la narrazione stessa: nei numerosi momenti in cui Joaquin Phoenix si ritrova da solo dopo ogni lunga e sfiancante giornata con Jesse, egli registra i propri pensieri con un microfono, in una sorta di audio-diario, un espediente veramente scontato e di basso livello, che rende il tutto estremamente didascalico e non lascia spazio alcuno al non detto o al silenzio, eliminando completamente istanti e sguardi che avrebbero avuto sicuramente un impatto emotivo differente. 

Il trucco dell’intervista-registrazione viene ripetuto innumerevoli volte durante la pellicola, anche e soprattutto nei momenti in cui Johnny si trova a dover intervistare per lavoro dei bambini, chiedendo loro cosa immaginano quando pensano al loro futuro. Le sequenze in questione rappresentano, forse, il punto più basso e inspiegabilmente didascalico del film che, in queste situazioni, assume il tono di una pubblicità progresso, di uno spot di una qualche ONLUS  impegnata nella sensibilizzazione dell’opinione pubblica sul maltrattamento psicologico dei minori, al punto che se durante uno di questi momenti comparisse in sovrimpressione un numero verde per effettuare una donazione benefica nessuno si stupirebbe!

Unica nota positiva, unica luce nella notte, l’interpretazione di Joaquin Phoenix che recita ormai con una naturalezza impagabile: l’attore e il personaggio appaiono come una cosa sola e laddove l’intero film risulta smaccatamente costruito e fasullo, gli unici passaggi di vera autenticità si trovano in alcune espressioni del protagonista, il quale non tiene solo Jesse sulle spalle, come si vede in svariate scene, ma anche l’intero progetto che, senza di lui, sarebbe stato probabilmente ancora meno convincente. 

Nonostante, quindi, un’interpretazione di Phoenix che comunque salva – più o meno, ma più meno che più – la proverbiale baracca, la scrittura del suo personaggio non permette una caratterizzazione abbastanza forte e approfondita, rendendo il Johnny di C’mon C’mon un ruolo che nulla toglie alla grandissima carriera dell’attore, ma che nemmeno vi aggiunge qualcosa. 

In conclusione, questa pellicola si rivela essere decisamente un passo falso per la A24, che produce qui un’opera manierista, didascalica, superficiale e calligrafica, che potrebbe comunque far urlare al miracolo i numerosissimi fan accaniti della indiewave ormai in voga nel cinema contemporaneo, ad alcuni dei quali probabilmente non interessa veramente la qualità del film in sé, ma vantarsi con gli amici di aver visto al cinema un film in bianco e nero, piuttosto che l’ultimo film della Marvel e affini. 

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Alessandro Catana, Caporedattore