Come reagire a una terza decade di nuovo millennio in cui l’ipotesi storica di una terza guerra mondiale, anziché affievolirsi, diventa sempre più concreta? Al suo quinto film e nella produzione più costosa di A24 (50 milioni di dollari), Alex Garland sporca di sangue l’humus contemporaneo, lo impregna di violenza, lo decostruisce con l’ironia, e responsabilizza il ruolo dello spettatore ragionando sul reportage di guerra (e quindi sullo sguardo) come atto politico.
Su sceneggiatura dello stesso Garland, Civil War narra di un futuro prossimo dove due candidati si contendono la presidenza della Casa Bianca mentre gli Stati Uniti sono stremati da una feroce guerra civile. Per strada si scatenano conflitti armati in cui poliziotti manganellano giornalisti e fucilano civili, New York è a corto d’acqua e sotto attacchi terroristici e le macerie del governo si scontrano con le forze Occidentali di Texas e California (Western Forces). La fotoreporter Lee Smith (Kirsten Dunst) e il giornalista Joel (Wagner Moura) decidono di intervistare il Presidente in carica trinceratosi nei palazzi di Capitol Hill: al viaggio attraverso le regioni dilaniate dalle atrocità belliche si aggiungeranno l’anziano giornalista Sammy (Stephen McKinley Henderson) e la giovane aspirante reporter Jessie (Cailee Spaeny), che vede in Lee un modello da seguire.
Lee Smith è ormai depressa per gli orrori visti in passato
“Non è una storia se non viene pubblicata”
Esordisce con questa battuta il personaggio di Lee, che come nota subito l’attenta Jessie porta lo stesso nome di Lee Miller, la storica fotografa di guerra che documentò anche i campi di concentramento di Buchenwald e di Dachau. La dichiarazione è sia atto politico che sintesi di Civil War, perché il road movie (ancora non sappiamo quanto) distopico tra le fiamme e le esplosioni delle guerriglie armate è visto dalla prospettiva di coloro che non imbracciano un’arma ma che sono occhio testimoniale dell’esistenza del fucile: la macchina fotografica. Dispositivo forse ancora più significativo dei – e nei – conflitti, l’archivio memoriale grazie al quale la storia si fa Storia. Lee rischia la vita da anni e col passare del tempo ha perso la fede nella forza del giornalismo, ma non a tal punto da rifiutare un’ultima disperata corsa verso Washington in cerca della storia definitiva da raccontare. Jessie invece è giovane, un po’ inesperta ma con grandi speranze, non tanto nel futuro, ma nell’importanza del ruolo del fotoreporter. Perché rischiare la vita per uno scatto?
Per tanti motivi, innanzitutto per un senso di responsabilità, etica e politica, ma anche per l’adrenalina del momento. Il personaggio di Kirsten Dunst ammonisce subito la giovane ragazza: il lavoro del giornalista di guerra è come una droga, l’assuefazione arriva presto, è difficile da gestire, e il gesto estremo è sempre dietro l’angolo. Dove posizionare lo sguardo? Come posizionarlo? Fin dove spingersi? Il ragionamento del regista passa anche attraverso i diversi punti di vista adottati all’interno del racconto, facendo talvolta diventare il motore della narrazione lo stesso obiettivo delle fotocamere dei personaggi. Se pochi mesi fa Jonathan Glazer aveva riflettuto sull’importanza e sull’etica dello sguardo lavorando per sottrazione, lasciando tutto al fuori campo, Garland per contrappasso gioca con lo staged, indaga il senso della rappresentazione immediata, del macabro carpe diem, del morbo per la documentazione istantanea, al contempo inquietante e adrenalinica, ma che si farà eterna.
Un road movie attraverso l’inferno della guerra civile
Realtà nuove, finzioni autentiche
Venduto più come un action, in realtà il nuovo film di Garland (l’ultimo prima di una pausa dalla regia per concentrarsi sulle sceneggiature) è più un viaggio on the road per un’America che ha sprigionato tutti i suoi fantasmi: i soldati decidono chi salvare in base alla provenienza geografica (colpisce duro la scena con uno spietato Jesse Plemons), fazioni di civili cercano di evitare a tutti i costi la consapevolezza degli scontri recintandosi in ‘zone grigie’ isolate (le twilight zone), mentre i soldati non aspettano altro che scattarsi una foto con il corpo morto del Presidente, in un’immagine che è aperto riferimento alla celebre foto del corpo deceduto di Pablo Escobar con attorno le forze armate colombiane (quella scattata dall’agente della DEA Steve Murphy il 2 dicembre 1993). Garland sottolinea il valore iconografico degli scatti: la fotografia piuttosto che riprodurre la realtà, la riscrive, ci mostra cose che altrimenti non avremmo mai percepito, portando il ragionamento all’estremo potremmo dire che non sarebbero addirittura mai esistite. Se in teoria la fotografia riproduce la realtà, in pratica lavora sul modo che abbiamo di guardarla, in quanto nello scatto passato e presente si congiungono: “Io non posso mai negare che la cosa è stata là. Vi è una doppia posizione congiunta: di realtà e di passato” scriveva Roland Barthes in La camera chiara (1980). In virtù di ciò non è folle azzardare che Garland abbia pensato a Robert Capa e al suo ‘miliziano morente’, più volte richiamato nel film, l’immagine a cui è difficile non credere per il modo in cui ci viene mostrata, per il realismo sconvolgente dell’istante.
“Milizano che muore” di Robert Capa, scattata nel 1936 durante la Guerra civile spagnola
Eppure, nonostante lo scatto sia diventato l’icona del fotogiornalismo e l’incarnazione più autentica del potere della fotografia, porta con sé dubbi non risolvibili sulla sua autenticità. Una contraddizione? Affatto, se pensiamo che il linguaggio fotografico, così come quello cinematografico, hanno la rispettiva artisticità nel valore che le immagini assumono in un dato momento storico e nella loro capacità di produrre nuove realtà. Ed è proprio così che dobbiamo vedere le immagini distopiche di Civil War, ricostruite ma veridiche, impossibilmente verosimili, implausibilmente futuribili. Il clima teso e nefasto del film vede spesso le incursioni di canzoni completamente antitetiche e distese (bellissimo l’utilizzo di “Breakers Roar” di Sturgill Simpson) ma questo piglio decostruttivo ai limiti dell’ironia è comprensibile, forse addirittura necessario, per credere alla nuova realtà del film: d’altronde se quel mondo fosse il nostro, autentico e attuale, non ci sarebbe molto da ridere…

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