Inizialmente annunciato come film di apertura dell’ultima Mostra del Cinema di Venezia (sostituito, a causa dello sciopero di sceneggiatori ed attori allora in corso -https://framescinema.com/sag-aftra-sciopero/-, da Comandante -https://framescinema.com/recensione-comandante-venezia/- di Edoardo De Angelis), è finalmente uscito nelle sale l’atteso nuovo film di Luca Guadagnino.
Dopo essere “esploso” con Chiamami col tuo nome e dopo i successi (di critica, non di pubblico) di Suspiria e Bones and all, il regista si dedica al genere sportivo, e lo fa con un cast ridotto ma di tutto rispetto: Zendaya (Euphoria, Dune), Josh O’ Connor (The Crown, La terra di Dio, La Chimera) e Mike Faist (West Side Story).
Gli attori sono protagonisti di un triangolo amoroso sullo sfondo del mondo del tennis. Tashi (Zendaya) conosce i due migliori amici Art (Feist) e Patrick (O’ Connor) quando sono tutti e tre stelle nascenti dello sport. I due si dimostrano immediatamente interessati alla ragazza, e cominceranno a contendersela anche dopo che Tashi ha cominciato ad uscire con Patrick. Dopo un infortunio che le costa la carriera, Tashi diventa l’allenatrice e, successivamente, la moglie di Art. Tredici anni dopo il loro primo incontro, i due ex amici si scontreranno in un torneo di seconda categoria, riportando a galla tensioni mai sopite.
Sin dagli albori, anche nei meno apprezzati Io sono l’amore, A bigger splash (e sì, anche in Melissa P.) il cinema di Guadagnino è stato un cinema segnato dalla fascinazione per i corpi. In Chiamami col tuo nome, il pretesto per puntare le telecamere su di essi era fornito dall’ambientazione estiva e dalla storia d’amore dei protagonisti; in Suspiria avevamo la convergenza tra mondo della danza e riti stregoneschi; in Bones and All il pretesto era quello del soggetto tabù del cannibalismo, col consumo della carne che diveniva, anche in questo caso, metafora del rapporto amoroso consumante tra i protagonisti.
Il mondo dello sport si dimostra materia estremamente adatta allo sguardo del regista in quanto integralmente fondata sul corpo dell’atleta e la sua osservazione ossessiva (da parte del pubblico, di medici ed allenatori, dei media). Così, sin dalle primissime inquadrature che ci presentano i nostri giocatori, lo spettatore è sottoposto alla visione dei corpi (non a caso giovani e belli) dei protagonisti, scomposti in una serie di dettagli, nei muscoli in tensione e azione, nei volti sudati, ma anche nelle cicatrici e nelle ferite, nel ginocchio di Tashi che si disloca, nelle mani protese a chiedere o dare affetto. O ancora, nei corpi ripresi nella loro interezza mentre sono in movimento sul campo da gioco, a letto, o sulla pista da ballo.
L’importanza, sia narrativa sia tematica, dello sport nella storia richiede, ovviamente, che la regia si adatti a rendere gli incontri sportivi il più adrenalinici possibili, obiettivo raggiunto per buona parte del film anche grazie ad alcuni interessanti accorgimenti, il più notevole dei quali è certamente la sequenza finale della partita “vista” attraverso la pallina da tennis.
Lo sport è, in sé, un atto voyeuristico proprio come lo è il cinema, questa pare essere la tesi fondante di Challengers. Proprio come il cinema, dunque, non può prescindere da un elemento insito di erotismo, materializzato dalla relazione a tre dei protagonisti. Non è un caso, d’altronde, che Art e Patrick si innamorino di Tashi osservandola durante una partita di tennis, come non è un caso che probabilmente il momento in cui Tashi si innamora di entrambi (o meglio, del loro legame) sia un’occasione di puro voyeurismo. Sarà poi Tashi stessa a vocalizzare quello che è, sostanzialmente, il principio fondante di tutto il film: il tennis è una relazione.
Art e Patrick, il cui match finale funge da fil rouge narrativo dell’intero film, sono i due estremi di questa relazione, che ruotano attorno al centro gravitazionale che è Tashi. Soprannominati “fuoco e ghiaccio” (non ci viene detto mai chi dei due sia chi, anche se non ci è difficile speculare e immaginare), i due amici sono tanto opposti nelle personalità quanto nelle relazioni con la donna. Art è, a modo suo, consciamente succube della moglie, mentre al contrario Patrick la sfida costantemente. Patrick viene più volte tacciato di immaturità perché percepito come meno “realizzato” in quanto adulto, rispetto ai due coniugi milionari, quando in verità è Art a cercare, anche abbastanza palesemente, un simulacro della figura materna in Tashi.
Tashi, da parte sua, sembra avere bisogno di entrambe queste figure nella sua vita, il “groupie” e il critico, oscillando tra l’uno e l’altro a seconda delle proprie necessità proprio come una pallina passa freneticamente da una parte all’altra del campo.
Tuttavia, Guadagnino dimostra di conoscere la materia che sta trattando e le implicazioni insite nell’osservazione ossessiva di corpi sudati prevalentemente maschili tanto nello sport (il divario d’interesse tra sport di squadre maschili e femminili si sta livellando solo ultimamente) quanto in generi cinematografici fallocentrici. Una inconfondibile corrente bisessuale attraversa tutto il film, tipica certo del cinema di Guadagnino (pensiamo solo al personaggio di Elio in Chiamami col tuo nome, o al momento che Lee, sempre interpretato da Chalamet, condivide con un ragazzo per poter “sfamare” sé e la compagna Maren nel dramma cannibale Bones and all) ma figlia anche di una storia del cinema che nega veementemente l’interesse sessuale o amoroso in universi abitati prevalentemente (se non esclusivamente) da personaggi maschili che pure condividono connessioni emotive straordinariamente forti tra di loro.
Guadagnino non cade nella trappola. Se è vero che il tennis è una relazione, ne consegue che il match più importante, quello che apre e chiude il film, è anche quello nel quale si materializza la più importante connessione emotiva della storia: quella tra Art e Patrick.
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