Il cinema contemporaneo offre poche certezze agli spettatori, ma fra queste c’è la buona novella che M. Night Shyamalan è ormai distante anni luce dal periodo buio degli spazi aperti e sconfinati de L’ultimo dominatore dell’aria e di After Earth, entrambi blockbuster affossati dalla critica, ma al cui soccorso sono arrivati Jason Blum con la sua Blumhouse Productions che producendo The Visit – un piccolo gioiellino dell’horror found-footage – hanno ridato linfa vitale al cinema del regista indiano naturalizzato statunitense. Finalmente con il thriller di parola Bussano alla porta, tratto dal romanzo horror La casa alla fine del mondo di Paul Tremblay e altra materia non originale di Shyamalan dopo Old (adattamento della graphic novel Castello di sabbia), siamo tornati alle dimensioni più confacenti al suo cinema, quelle degli spazi angusti e ristretti a una dimensione più umanista e intimista, un cinema che non ha bisogno di alti budget o di mondi da esplorare per parlarci della contemporaneità, perché spesso il mondo da dissezionare e da indagare potrebbe essere già racchiuso in uno chalet nel bel mezzo della foresta.
LA SCELTA GIUSTA
La bimba di otto anni Wen (Kristen Cui) e i suoi due papà, Eric e Andrew (Jonathan Groff e Ben Aldridge), stanno trascorrendo qualche giorno in uno chalet isolato nei boschi quando bussano alla porta quattro sconosciuti armati di diversi oggetti e arnesi; la banda è composta dal robusto e gentile Leonard (Dave Bautista), lo scontroso Redmond (Rupert Grint) e le più mansuete Adriane e Sabrina (Abby Quinn e Nikki Amuka-Bird). I quattro invasori hanno un compito: convincere i tre componenti della famiglia che uno di loro deve sacrificarsi per il bene dell’umanità. Dovrà per forza essere uno fra i due mariti o la piccola Wen a compiere la scelta impensabile e ogni rifiuto porterà alla morte di uno degli improvvisatisi cavalieri dell’Apocalisse, scatenando ogni volta una piaga sulla Terra.
Quale scelta compiere con la consapevolezza che l’Apocalisse risparmierà soltanto i tre membri della famiglia?

Leonard (Dave Bautista), Adriane (Abby Quinn) e Sabrina (Nikki Amuka-Bird)
“Qualunque cosa dovremo affrontare, qualunque siano le nostre lotte interiori, abbiamo sempre una scelta […] Sono le nostre scelte che fanno di noi quello che siamo e abbiamo sempre la possibilità di fare la scelta giusta”.
Nonostante Shyamalan abbia già dedicato un’intera trilogia al concetto di superuomo, era destino che prima o poi – forse inconsapevolmente, come in questo caso – il suo cinema tornasse ad intrecciarsi con un cinecomic: è interessante notare come Bussano alla porta sembri riprendere in tutto e per tutto la chiosa di Spider-Man 3 di Sam Raimi, ma cosa c’entra l’uomo ragno con l’Apocalisse (domanda ai limiti del retorico: non c’è nulla di più speromistico che la possibilità di salvare l’intera umanità)? Il fil rouge che congiunge il (sottovalutato) terzo capitolo di Spider-Man con lo shyamalanverse risiede proprio nel concetto di scelta e le sue diverse declinazioni: il supereroe è convinto che “abbiamo sempre la possibilità di fare la scelta giusta” (lui scelse di perdonare Flint Marko per la morte di Zio Ben, così come Harry Osborn scelse di sacrificarsi per salvare la vita del migliore amico), la stessa scelta che sono tenuti drammaticamente a dover prendere i tre malcapitati e futuri salvatori della Terra. Ma a che prezzo? Certo, è sempre possibile operare una scelta, ma è davvero sempre possibile compiere “quella giusta”?
Infatti, Bussano alla porta prosegue il discorso di Spider-Man 3 problematizzandolo, ampliandolo, mescolando le carte in gioco e il piano su cui si gioca: se E venne il giorno ci catapultava nel bel mezzo della catastrofe causata dalle azioni dell’uomo sull’ambiente, questa nuova fatica di Shyamalan sembra esserne un sequel concettuale (“La verità è che la fine era iniziata molto prima che noi venissimo qui”, confesserà a un certo punto Leonard) ma perfettamente aggiornato alla contemporaneità.
CINEMA-RADAR
In realtà, nulla di sorprendente. Shyamalan ci ha da sempre dimostrato che i suoi film costituiscono un cinema-radar per le paranoie del contemporaneo: Signs e The Village per il clima post-11 settembre, E venne il giorno per il suicidio globale a cui stiamo andando incontro a causa dei danni all’ecosistema, Glass (che tira le fila di Unbreakable – Il predestinato e Split) per la figura onnipresente del supereroe/superuomo. Shyamalan capta e metabolizza, ma se in E venne il giorno eravamo immersi e vedevamo coi nostri occhi le conseguenze delle azioni dell’uomo sull’ambiente e a quelle immagini – noi, così come i protagonisti del film – potevamo crederci senza indugio, ora la sfida si fa più ardua. Perché non siamo più nel 2008 e dopo quindici anni la situazione è cambiata radicalmente: i personaggi del film sono barricati in casa e isolati dal resto del mondo (esattamente come noi a causa della pandemia, concetto che non casualmente tornerà nel film), messi davanti alla scelta se credere o meno alle angoscianti immagini trasmesse in televisione, posti di fronte a un’umanità sempre più sull’orlo del baratro per concause di cui ormai è difficile distinguere l’effetto di ogni singolo agente, tant’è che Andrew si interrogherà a più riprese del motivo di tali devastazioni senza ottenere alcuna risposta.

La coppia Eric (Jonathan Groff) e Andrew (Ben Aldridge) assieme alla figlia Wen (Kristen Cui)
HOME INVASION: SENZA INVASIONE
Una risposta non arriverà mai, perché Bussano alla porta è un home invasion senza invasione, o per meglio dire: senza nemico; perché il nemico siamo noi, con le nostre scelte e le loro conseguenze, non ci sono cause esterne e inafferrabili, soltanto una necessità di sacrificio del singolo e una disperata necessità di empatia (quella che mancava all’omofobo Redmond quando pestava uno dei due coniugi omosessuali, come vediamo dai flashback con cui Shyamalan spezza saltuariamente la tensione).
Il nemico è dentro di noi, non bisogna guardare troppo lontano; non è un caso caso che Shyamalan, giocando sempre con il fuori campo nelle sequenze più tese, come in Signs e The Village arrivi addirittura a tenere l’intero mondo fuori campo: è per questo che il suo cinema trova la massima espressione negli ambienti ristretti e circoscritti, perché da sempre i suoi film agiscono su di un piano puramente concettuale rifuggendo la spettacolarizzazione (che guarda caso, quando abbracciata, ha portato a rovinose capitolazioni).
Il finale, che si discosta radicalmente dal romanzo e che (forse) si affida a un eccessivo didascalismo, è solo apparentemente più conciliatorio e consolatorio rispetto a quello nefasto di E venne il giorno: probabilmente, come sosteneva Peter Parker, c’è una “scelta giusta” che potremo compiere per evitare la catastrofe, ma il prezzo da pagare sarà altissimo…
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