Con il cinema, si sa, si possono creare mondi in cui tutto è possibile, persino realtà in cui 200 meno 187 fa 33. Quest’assurdità algebrica viene ripetuta due volte in Broken Rage, ventesima opera nata dal genio folle di Takeshi Kitano, un film che potrebbe essere descritto come il riassunto definitivo della sua intera produzione, cinematografica e non.
Presentato fuori concorso all’81° Mostra del Cinema di Venezia e ora disponibile su Amazon Prime Video, Broken Rage riesce, in appena 62 minuti, a racchiudere le due anime del suo autore: da un lato, Takeshi Kitano, il regista glaciale a cui dobbiamo capolavori come Sonatine e Hana-Bi, che hanno decostruito il genere degli yakuza eiga con riflessioni introspettive sulla violenza; dall’altro, Beat Takeshi, pseudonimo che identifica lo showman cabarettista e l’attore in grado di alternare, con la stessa intensità, minaccia e comicità surreale.
È proprio sull’ambivalenza dei significati attribuibili a uno stesso oggetto – o soggetto – che lavora il film. La maschera “Beat Takeshi” incarna già una doppia natura, dovuta all’incidente avvenuto nell’agosto 1994 che ha lasciato Kitano con una paralisi facciale parziale. Il regista è comunque riuscito a trasformare questa particolarità in un tratto distintivo e lavorando sull’espressività del proprio volto è riuscito a imporsi come una vera e propria icona cinematografica: da un lato l’imperturbabile sguardo dello yakuza spietato, dall’altro le smorfie pantomimiche del comico.
E così è strutturato Broken Rage: due metà, stesso materiale di partenza, ma forme e linguaggi differenti. Kitano è Takahashi, detto Nezumi (“Topo”), un sicario impeccabile, pragmatico e freddo, che viene catturato dalla polizia di Tokyo e costretto a infiltrarsi per incastrare un boss della yakuza. Tutto qui, Kitano lavora a partire da questo semplicissimo spunto per sviluppare un film in due parti che decostruisce e parodizza gli yakuza eiga ma anche la sua stessa filmografia, nel momento in cui, nella seconda parte, Beat Takeshi assume il controllo del film, portandolo verso il demenziale delirio che abbiamo conosciuto con Takeshi’s Castle.
La storia di “Topo” prende forma nella prima parte, in un racconto che procede con ritmo serrato, senza fronzoli, mostrando solo l’essenziale. Ed effettivamente tutto è essenziale, perché asservito alla seconda metà, che fagocita tutto ciò che incontra sottoponendolo alle proprie caotiche regole. In questo spin-off delirante, la narrazione si regge quasi unicamente sui riferimenti acquisiti in precedenza, riproponendoli inquadratura per inquadratura. Il vorticoso susseguirsi di gag si configura così come un costante attacco alla linearità del racconto, un sabotaggio della plausibilità degli eventi, un rifiuto categorico di qualsiasi coerenza narrativa, se non quella strettamente necessaria a sostenere le innumerevoli trovate di Kitano.
Broken Rage è, prima di tutto, un film parodico, e lo è da subito, a partire dall’efficienza di “Topo”, che richiama la trilogia di Outrage (2010-2017), portando all’estremo gli elementi caratteristici. Kitano sottopone al massimo sforzo tutti gli stilemi utilizzati nei precedenti film sulla yakuza, raggiungendo il punto di rottura evocato dal titolo stesso. La rabbia e la violenza si frantumano, si annullano, esplodono ribaltando l’intero genere e portandolo a confrontarsi con ciò che, in apparenza, gli è più distante: la commedia demenziale. Ma la comicità in questo caso non è un semplice intermezzo, una concessione al pubblico, diventa invece un mezzo espressivo consapevole del proprio linguaggio, che rivendica in continuazione, imponendosi come una forma artistica pienamente legittimata.
Ad ogni modo, questa propensione alla sovversione dei generi cinematografici non sorprenderà chi conosce il precedente film di Kitano, Kubi, presentato a Cannes nel 2023. Anche lì il regista si confrontava con un’importante tipologia di film, il jidaigeki, ovvero i film di ambientazione storica –I sette samurai di Akira Kurosawa ne è un esempio emblematico. Con Kubi, Kitano rifletteva sull’assurdità della guerra e sull’estrema violenza su cui si è edificata la storia del Giappone, portando, anche in questo caso, ogni aspetto fino alle sue estreme conseguenze. Come per Broken Rage, il fine ultimo era la metamorfosi del film in una commedia dell’assurdo. Tuttavia, mentre in Kubi questa trasformazione avveniva in modo graduale e senza scardinare la linearità narrativa o la plausibilità degli eventi, in Broken Rage la demolizione delle convenzioni è immediata e totale.
L’enfasi sulla violenza, spinta all’eccesso, produce il paradossale effetto di annullare qualsiasi dimensione epica, dissolvendo il pathos dal momento in cui tutto è enfatizzato. In questo modo Kitano attua una riflessione autentica sul jidaigeki e le sue possibili declinazioni, allo stesso modo in Broken Rage decostruisce e ridicolizza lo yakuza eiga. Tracciando un filo diretto tra violenza e comicità, sembra chiudere un cerchio: quello di un’intera carriera artistica, declinata attraverso vari mezzi espressivi.
Ma Broken Rage non è l’apice del percorso artistico di uno dei registi più importanti del suo tempo, bensì la sua esilarante e precisissima summa, condensata in appena 62 minuti in cui Kitano si permette persino di prendersi gioco del proprio pubblico – ben contento di ritrovare Beat Takeshi in una forma così divertente e divertita – inserendo dei riempitivi sfacciatamente esibiti con geniale autoironia. Di fronte a questo adorabile e stratificato atto di ribellione cinematografica e di legittimazione della comicità demenziale, non possiamo far altro che esclamare: Glory to Takeshi Kitano!

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