Lo spunto di partenza di Brian e Charles è di quelli bislacchi ed eccentrici da film indipendente che trova prima una rampa di lancio nel Sundance Film Festival, in cui è stato presentato lo scorso gennaio, e poi solo una timida distribuzione internazionale. Il lungometraggio d’esordio di Jim Archer prende le mosse da un corto del 2017 dello stesso Archer e scritto dai due protagonisti, David Earl e Chris Hayward, che qui ritornano come attori/sceneggiatori: del corto conserva il plot di base -un solitario inventore che abita in una profonda zona rurale e contadina del Galles costruisce un robot a partire da ritrovamenti in discariche abusive-, e l’espediente del falso documentario che si intrufola nella vita dello stralunato protagonista.
UOMINI E ROBOT
In Brian and Charles, l’attore e comico inglese David Earl perfeziona il suo personaggio-maschera Brian, portato in scena in diverse produzioni teatrali, televisive e cinematografiche -al pubblico italiano noto soprattutto come l’accumulatore compulsivo Brian nella serie After Life di Ricky Gervais- e si immerge da capo a piedi nel complesso di tic, eccentricità e invenzioni bislacche (da uno sturalavandini-borraccia a un orologio a cucù volante) dell’inventore improvvisato per portare avanti un discorso sull’originalità, sulla creatività in contrasto con il conformismo e la meschinità quotidiana che compongono il tessuto sociale e umano del piccolo angolo di Galles immerso nel verde. David Earl e Chris Hayward sono perfetti nei rispettivi ruoli, ed entrambi fanno trasparire tutta l’umanità dei due emarginati sociali, uno dei quali assemblato da pezzi di discarica, tramite piccoli gesti o espressioni sfuggenti.
100% FEEL-GOOD MOVIE
Piccolo nel budget e nelle ambizioni, Brian and Charles non è niente di più del tipo di film promesso già dal trailer e non aggiunge quasi una virgola a quanto si intuisce già dal primo atto o dalla lettura del plot: la storia procede liscia senza sobbalzi né sorprese, dei personaggi si intravede già la linea narrativa non appena entrano in scena, i buoni per cui fare il tifo e i cattivi da biasimare svolgono un ruolo preciso e puntuale. Questo potrebbe dare l’idea di un prodotto
banale o prevedibile, ma in realtà è solo consapevole della propria semplicità e non pretende di essere più che la storia dell’amicizia tra un inventore e il suo robot, e di più non chiede al pubblico. È un tipo di intrattenimento innocente, senza pretese ma nel senso migliore del termine, che rivendica il potere delle storie più semplici, quelle che magari a un primo impatto vengono accolte con un sorrisetto di condiscendenza e un alzata di spalle; e anche quelle punte di cinismo british che danno colore al primo atto scompaiono quasi del tutto nel secondo, lasciando campo aperto a un film pienamente e consapevolmente feel-good che punta a soddisfare e far sorridere.
Che questa innocenza possa risultare irresistibile oppure irritante dipende completamente dalla tolleranza e dai gusti del singolo spettatore; tuttavia è difficile non premiare questo film bislacco e talvolta fuori tempo massimo, questo inno alla semplicità sincero e dal grande cuore.
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