Non è raro che un regista italiano riesca a sforare i confini nazionali per diventare una presenza discussa in tutto il mondo: senza scomodare i maestri del cinema italiano del dopoguerra, basti pensare a personalità del calibro di Giuseppe Tornatore, Gianni Amelio, Gabriele Salvatores, Nanni Moretti e Paolo Sorrentino, che negli ultimi trent’anni hanno saputo tessere una tela di legami internazionali in ambiti festivalieri e non solo, imponendo il loro cinema all’estero anche per merito del sistema delle co-produzioni.
Luca Guadagnino, dunque, non rappresenta una rarità né tantomeno un’eccezione. Nella sua carriera ultra-ventennale ha dimostrato una sensibilità tale da permettergli di mantenere un occhio all’Italia pur ampliando la propria visione al resto del mondo. Tra risultati alterni (è strano pensare come il regista dell’illuminante remake di Suspiria abbia diretto, all’inizio della sua carriera, il pessimo adattamento di un altrettanto pessimo romanzo, Melissa P.), Luca Guadagnino ha stabilito nel corso della sua opera non solo delle costanti tematiche e formali, ma anche umane, come il sodalizio con le attrici Tilda Swinton e Dakota Johnson.
Il sodalizio che, però, si è impresso con maggiore dirompenza nell’immaginario collettivo è quello con Timothée Chalamet. Tutto ebbe inizio nel 2017 con Chiamami col tuo nome, il film di Luca Guadagnino responsabile dell’esplosione del giovane attore statunitense nel firmamento hollywoodiano, che lo ha imposto tra i più grandi divi della sua generazione. Il rapporto tra Guadagnino e Chalamet, prima ancora che da ragioni artistiche o professionali, sembra dettato da un’umana stima reciproca e da un affetto profondo.
Con il rischio di avanzare una congettura infondata, non è difficile capire cosa Guadagnino abbia visto in Timothée Chalamet, escludendo l’evidente talento. Il regista non ha mai fatto segreto della sua omosessualità; nel giovane Chalamet potrebbe aver trovato la fragilità e l’ambiguità necessarie ad esprimere cosa possa aver voluto dire crescere tra gli anni Ottanta e Novanta, in un clima di intolleranza nei confronti di ogni forma di diversità, nella città di Palermo.
Bones and All vede il ritorno di Luca Guadagnino alla regia di un lungometraggio di finzione all’insegna del tema del cannibalismo, adattando l’omonimo romanzo di Camille DeAngelis. Considerando i precedenti di Armie Hammer, co-protagonista di Chiamami col tuo nome al centro di una tempesta mediatica con l’accusa di cannibalismo, l’uscita di questo film appare come un’ironica coincidenza. La figura del cannibale al cinema non è sicuramente una novità, basti pensare, per estrapolare solo due esempi, al celeberrimo Hannibal Lecter de Il silenzio degli innocenti o a Fresh, un’ottimo prodotto proveniente proprio dall’annata cinematografica ancora in corso.
Il più grande punto di forza di Bones and All è dato dal contrasto tra il tema del film e il tono assunto nella narrazione. Parlare di cannibalismo non è cosa facile, si tratta di un tema scabroso e inaccetabile e, proprio per questo, delicato e nascosto. Al contrario di ogni facile previsione, la narrazione e la messa in scena contribuiscono a creare un’atmosfera lieve, pacata, rilassata. Non vi è giudizio nei confronti dei protagonisti, dei cannibali visti piuttosto come emblema della diversità, come anime che vagano in un mondo in cui la loro condizione sembra autoalimentarsi e, di conseguenza, allontanare l’ordinarietà.
Il tema del cannibalismo lascia emergere un contrasto tra umanità e bestialità, tra istinto e ragione, tra autoconservazione e sopravvivenza della specie. Più e più volte i personaggi vengono rapportati alla natura animale o rappresentati in una stretta relazione con gli animali stessi. Tanti interrogativi vengono aperti, senza una vera e propria risposta, con l’intento di portare gli spettatori alla riflessione su temi dibattuti e fortemente divisivi. Quindi Luca Guadagnino mette in relazione l’inquadratura di un pollo e quella di un corpo umano nella stessa sequenza, entrambi visti come alimenti, con un non troppo velato invito a riflettere su ciò che viene considerato giusto e sbagliato e sulle ragioni di questa differenza.
Il cannibalismo è visto come una malattia ereditaria, come un morbo inespugnabile simbolo del ricadere delle colpe dei padri suoi figli. Bones and All è il racconto di un conflitto generazionale, della nascita di mostri per mancanza di affetto, di educazione emotiva, di solide radici. Maren Yearly, la protagonista interpretata da Taylor Russell, è una ragazza senza madre né padre che attraversa un percorso da road movie: un viaggio in fuga da qualcosa di terribile, probabilmente da sé stessa, e alla ricerca di un equilibrio apparentemente introvabile. Un tragitto contrassegnato dai dubbi morali di Maren, in un Bildungsroman dai toni foschi e dark, con un’ineluttabilità del proprio destino tipica della narrazione cinematografica del noir.
Il tono del film trova l’equilibrio in un’oculata gestione di tutti gli elementi della messa in scena. La fotografia di Arseni Khachaturan, a dir poco sublime, restituisce un ritratto vibrante degli Stati Uniti rurali e periferici negli anni Ottanta. Vengono fotografati paesaggi evocativi ma mai da cartolina, con una grande attenzione ai cieli nuvolosi al tramonto e al momento del crepuscolo. Un uso intelligente della fotografia e delle scenografie porta i colori a prendere vita: dunque il marrone, dominante in tutta la pellicola, sarà associato al colore della pelle di Taylor Russell, al legno delle case, alle luci soffuse provenienti da esse. Una matrice espressionista della fotografia porta i corpi degli attori a brillare nella notte o scontrarsi in giochi di luci e ombre emblematici della loro condizione interiore.
Il contrasto tra il tema del film e il racconto portato avanti da Luca Guadagnino può essere perfettamente esemplificato dalle musiche di Trent Reznor e Atticus Ross. Anch’esse contrappongono un’atmosfera chill a una perturbante, inquietante, a tratti quasi lynchiana, che emerge nei momenti di maggiore distorsione della volontà dei protagonisti. La musica riesce perfettamente nel ruolo di creare e contrapporre ambienti e atmosfere, realtà diverse, quelle nascoste e quelle concesse, da esibire.
L’iconografia del film emerge in tutta la sua dirompenza anche per la fisicità della storia raccontata. I corpi sono elementi fondamentali del film: esposti, dilaniati, privati della loro bellezza in alcune circostanze; freschi ed erotici in altre, ma comunque sporchi di sangue o di terra e imperfetti, contrassegnati da cicatrici, macchie sulla pelle o da un’abbronzatura disomogenea. Non si fraintenda, il rapporto tra cannibalismo ed erotismo emerge in maniera più sottile del previsto: non da scene di natura cronenberghiana, bensì da dialoghi dal forte carattere evocativo. Quando i due protagonisti, Maren e Lee (Timothée Chalamet) parlano della loro prima esperienza cannibale, lo fanno con la naturalezza di due giovani innamorati che si confrontano sulle loro prime passioni amorose.
D’altronde, Bones and All è anche questo: un teen drama mascherato da racconto dell’orrore e viceversa. Il film inizia tra i corridoi desolati di una tipica scuola americana, questo equilibrio legato alla quotidianità ben presto viene mozzato dall’emergere di un male profondo, rappresentato da una condizione anti-sociale e dal confronto con il proprio passato, che diventa anche l’analisi di un passato collettivo. Le vittime-alimento dei nostri protagonisti, per questo, non rimangono delle figure imprecisate ma tornano in vita grazie alle loro case, la loro personalità emerge dall’arredamento, dai vestiti sparsi per casa, dalle fotografie sui comodini, dai poster appesi alla parete. Il ruolo della fotografia, così come quello del cinema, è dunque quello di far percepire una presenza nell’assenza, di portare in vita chi non lo è più.
Guadagnino pondera con attenzione gli equilibri del film rendendoli significanti. Le sequenze d’amore vengono interrotte sul nascere, un bacio è appena accennato, mentre ci si sofferma sui morsi inflitti ai corpi dei malcapitati, sul sangue, sulla pelle tagliata e tumefatta. Solo nel finale si lascia veramente il passo al sentimento, prefigurando la possibilità di una vita normale, del controllo dei propri istinti, all’insegna del rifiuto di una vita in fuga, da reietti. È qui che emerge la maschera di Timothée Chalamet, un ragazzo mingherlino, per niente mascolino, con un abbigliamento ambiguo e i capelli tinti di rosso, che scava il suo volto con le lacrime, come nel perfetto finale di Chiamami col tuo nome. Come nel precedente Suspiria (la protagonista del Suspiria di Dario Argento, Jessica Harper, si trova anche all’interno del cast di Bones and All) si tratta di un cinema ultrasensoriale, fatto di corpi e di inquietudine.
Il finale, intenso e struggente, è un turbine di emozioni e contraddizioni, in cui, ancora una volta, risulta difficile comprendere il limite tra giusto e sbagliato, tra legittima difesa e violenza deliberata, tra istinto e autocontrollo. Bones and All, in fondo, non è altro che un film sulla diversità, sull’impossibilità di conformarsi a una condizione generalmente riconosciuta, sulla difficoltà nell’ascoltare sé stessi. Luca Guadagnino, un regista così vicino all’umanità dei suoi personaggi, non poteva che essere la scelta perfetta per portare sul grande schermo una storia di questo tipo.
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Lo vedrò!