LUCI DELLA RIBALTA
Inizia sui bagliori dei flash fotografici saettanti nel buio, e termina in un etereo, bianchissimo lucernario con vista su un’ascensione alla volta celeste, Blonde di Andrew Dominik (tratto dall’omonimo romanzo-fiume del 2000 di Joyce Carol Oates, e dal 28 settembre su Netflix, dopo il passaggio in concorso alla 79ª Mostra del Cinema di Venezia).
Tra questi poli luminosi distanti ma speculari, accesi e spenti come interruttori di un flusso soggettivo a corrente alternata – che irradiano e adombrano la figura di Marilyn Monroe tra la sfavillante diva del firmamento-cinema e la decadente stella polare dispersa tra la costellazione dei Gemelli -, si srotola nelle circa due ore e quaranta di film il sofferto e crudele travaglio esistenziale in chiaroscuro (a colori e in bianco e nero, in ogni formato possibile) di Marilyn alias Norma Jeane Baker (Ana de Armas): l’infanzia traumatica da vittima e sopravvissuta a una madre pazza e a un padre assente, la rutilante sfilata di una vita stretta in passerella sotto i riflettori della celebrità, la sfibrante reclusione claustrale stagliata nei cupi riflessi di un disagio e di un senso d’inadeguatezza insanabili, soffocati sotto lo splendore artefatto dello scintillante smalto esteriore.
Una Marilyn nata in ostaggio e presto inchiodata sul piedistallo di scena come una bamboletta su un carillon, a girare in tondo all’infinito per il diletto di tycoon predatori e golosi spettatori paganti. Costantemente circonfusa in un abbagliante, reale e metaforico “cerchio di luce” – quello che impara ad abitare, difendere e sprigionare al corso di recitazione, per entrare nel personaggio e non uscirne più – che si incrina e si rovescia in un avvolgente quanto invisibile cono d’ombra.
Una sfuggente eppure ingombrante silhouette in controluce alla Peter Pan, attaccata al corpo come una seconda pelle di morbida porcellana, calzata a (dis)misura di un falso sé. Un’aureola maledetta che la incornicia con le catene al ruolo di formosa pin up e lasciva quanto candida macchina del desiderio. Lo scuro doppelgänger di immacolata perfezione che in un attimo prende vita nello specchio delle sue brame di riconoscimento, e, in uno scatto d’inquietante magnetismo, sorride al culmine della schizofrenia come un Joker nevrotico e ghignante, senza soluzione di continuità tra il dolore folle e la maschera di felicità sfacciatamente esibita.
Una scissione che produce lo sdoppiamento irreversibile di un’identità sempre più fantasmatica ed evanescente, un confuso mosaico di apparizioni ingannevoli e irrazionali terremoti di coscienza, un puzzle frantumato di tessere non ricomponibili, un miraggio fuori fuoco di opachi e diluiti contorni femminili, che da soffici e imbellettati si fanno stinti, spiegazzati e perfino mostruosi (da cui emerge la naturale empatia di Marilyn per la creature della Laguna Nera e il suo bisogno di accoglienza, come spiega passeggiando sul set di Quando la moglie è in vacanza (1955) di Wilder). Un cerchio di luce che ricorre anche come correlativo figurativo dell’occhio maschile sgranato sulla bionda, ossessivo, ingerente e intrusivo, che la pervade e perseguita ovunque vada (l’obiettivo fotografico, gli enormi spotlight sul set, il fascio dell’enorme lampada ospedaliera), come fosse un bracciale stretto ai polsi o alle caviglie che ne sorveglia la costante corrispondenza all’etichetta prestabilita della bombshell blonde da copertina, e, in caso di deviazioni, la riconduce immediatamente nei confini ristretti dello stereotipo.
MARILYN OPERA POP
Il progetto Blonde ha avuto una lunga gestazione, dai primi abbozzi di sceneggiatura di Dominik, risalenti al 2008 (all’indomani dell’uscita dell’atipico western crepuscolare L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford, 2007), alle scelte di casting disattese (prima dell’ingaggio della De Armas, si vociferò di Naomi Watts e Jessica Chastain nel ruolo principale), fino alle riprese più volte interrotte a causa della pandemia. La sfida era ambiziosa e improba: dare nuova linfa autoriale e potenzialità cinematica da grande pubblico a colei che è senza dubbio la figura femminile più iconica del Novecento. Offrirne un inedito e personale re-imagining, rielaborando la densità sfaccettata, lo sguardo interiorizzato di una coscienza danneggiata e l’immersione nello stream of consciousness impiegati dalla fiction di Oates nel suo tentativo di identificazione interpretativa della donna Marilyn, come un’individualità spaccata nella crisi irrisolvibile tra l’essere soggetto attivo delle proprie azioni e l’essere oggetto passivo dell’avvilente sguardo esterno (prima ancora che attrice, diva, feticcio universale).
Per operare uno scarto dalla proliferazione pervasiva e istericamente inflazionata della sua immagine, codificata per sempre, dopo le serigrafie di Warhol, come il ritratto-simbolo del ciclo di infinita riproduzione mediale della cultura pop (di cui Dominik critica la meccanica e stanca ripetitività, mostrando in loop e da tutte le angolazioni, come un segno che gira ormai a vuoto, il celebre frammento della gonna che si gonfia sulla grata della metropolitana).
E portare così a compimento quel processo di umanizzazione e soggettivazione emotiva del mito collettivo, sempre troppo impomatato, della Monroe, sottratto agli ingranaggi stritolanti della macchina-cinema, a cui nel frattempo ha tiepidamente contribuito il romanticismo favolistico del Marilyn (2011) di Simon Curtis (mélo leggerino e dimenticabile, nonostante il duello tra la delicata ingenuità vaporosa di una credibile Michelle Williams e il carisma gigione di Kenneth Branagh nel ruolo di Laurence Olivier).
Dominik riesce nell’impresa accantonando il convenzionale equipaggiamento narrativo del biopic polveroso tutto psicologie da drammone pomeridiano, struggimenti di maniera, catarsi salvifiche e identificazione col personaggio. Agisce al contrario rispetto al lavoro che Marilyn fa su di sé: tendere nervi e corpo all’esaurimento per rintracciare nel proprio io profondo le affinità da trasferire al personaggio principale, e da comunicare in trasparenza allo spettatore. In stretta osservanza del metodo Actors Studio – si veda l’intenso provino per Don’t Bother To Knock (1952), con il transfert psicanalitico agganciato al padre scomparso – che invece Dominik sconfessa apertamente nel suo film (e nella performance di una straordinaria Ana De Armas che non sfora mai nelle mossette mimetiche e nell’impostazione da museo delle cere). In cui la verità più intima, le zone più recondite della personalità, non sono accessibili, non possono venire alla luce e fuoriuscire all’esterno, se non come immagini oniriche, proiezioni e voci di coscienza provenienti da una dimensione di insondabile assoluto che solo la visionarietà del cinema può materializzare come concrezioni spaziali dell’inconscio: è anche questo il senso – frainteso nelle critiche più facilone – del feto autocosciente incubato da Marilyn come un angelo custode di segreti (un desiderio di normalità e maternità tutt’altro che retrivo), sensi di colpa e demoni interiori.
ESTETICA DELLA DISSOLUZIONE
Il regista fa una scelta di campo netta e radicale. Lavora sul corpo e sugli strati delle immagini in una forte estetizzazione che abbraccia e dà forma a tutte le sfumature di Marilyn comprese tra l’estasi e la dannazione, in una messa in scena destrutturata di nitore abbacinante e fotografia sovraesposta, che disgrega la dimensione spazio-temporale e la fa collassare addosso agli squilibri traballanti del soggetto (utilizzando in due sequenze una body camera attaccata agli attori che rafforza ulteriormente il trambusto scombussolante della camera a mano). In cui da subito si perde la presa su un reale indistinguibile dalla dimensione del “just yourself” (come dice la madre), il mondo interiore dei personaggi. Sono le mani a tremare o sono le stanze della memoria a subire ansiogeni scossoni? C’è per davvero o è solo un’impressione, un brutto ricordo confinato nel cassetto, quel telefono nero che squilla assillante nelle stanze di Marilyn fin da quando è bambina, e che in una bellissima scena si sovrappone ritmicamente al pianto disperato di un neonato?
Con grande consapevolezza teorica, Dominik ragiona sullo splendore posticcio e sull’intima corruzione di immagini e superfici, richiamando un misto di stili e di influenze (primi piani bergmaniani con echi di doppi lynchiani, assedi paranoici da psyco-thriller claustrofobico alla Repulsion (1965) e temporanei quadretti di realismo romantico alla Norman Rockwell). In un incedere bulimico, sfrangiato e nervoso, perfettamente aderente alla razionalità scivolosa e ai dissesti psicologici di Marilyn, sprofondata in un terreno senza appigli che si sfalda come i pezzi di un set in via di smantellamento (in aereo, si alza dal sedile e senza stacchi viene immessa in una platea cinematografica tra applausi scroscianti).
Seguendo la scia del Pablo Larraín di Jackie (2016) e Spencer (2022), Blonde immerge la sua frastornata eroina sui sentieri di un incubo allucinato e deformante, dipanando lo smarrimento di una “Principessa Buona” che tenta di sfuggire al riflesso ammaliatore della sensuale “Amica nello Specchio” (per riprendere i termini di Oates) e si perde in un bosco infernale delle illusioni, senza più ritrovare la strada di casa che conduce alla figura paterna (con Jackie, inoltre, Marilyn condivide la pericolosa liaison presidenziale, e il suo eretico blowjob sul grande schermo, oltre a turbare il palato dei perbenisti, affossa e scredita una volta per tutte, davanti a un’immensa platea, l’innocenza positiva della Camelot kennediana).
LA MAGNIFICA PREDA
Sono molti i quadretti da fiaba perturbante (Marilyn come una Cenerentola azzurro pastello in un giardino di rose, quelle stesse rose che ha stampigliate su un vestito in riva al mare, la cui puntura produce un’allagante pozza di sangue in grembo). Come le scene in cui il film viene inghiottito in un imbuto visivo di toni squisitamente horror. Più precisamente, un surgery horror: nella splendida sequenza di Marilyn che fugge dal lettino operatorio, per perdersi nei corridoi onirici delle stanze fiammeggianti dell’infanzia.
Ci sono immagini – per qualcuno – scomode e urticanti? Sono improprie, impudiche e inammissibili le soggettive in utero? E come altro dovrebbero essere POV e angolazioni di un film dell’orrore? (rassicuranti, deontologicamente corrette e rispettose?). Che cosa sono quelle prospettive impossibili, se non l’incarnazione dell’angoscia di un home invasion trasferito sul corpo, condotto dal mad doctor di un incubo ospedaliero nei recessi di una paziente insidiata dalle minacce esterne, la materializzazione del terrore per un potere estraneo che infila i suoi luridi tentacoli all’interno del soggetto?
Piaccia o meno, Dominik, nel rappresentare l’appropriazione del corpo di Marilyn come un diritto naturale e assoluto, un potere di veto inalienabile sulla sua esteriorità e sul suo sé più nascosto, che un intero universo maschile esercita impunito su di lei, lo fa senza ricorrere a simboli e metafore interposte, semplicemente per quello che materialmente, fisicamente, chirurgicamente è. Inutile scambiare codici e atmosfere di un preciso genere narrativo per accanimento terapeutico.
HOLLYWOOD BIONDO CENERE
Infine, Blonde è anche e inevitabilmente un grande film sul cinema, sulla fabbrica dei sogni che produce e macina incessantemente i suoi falsi miti patinati a grandezza innaturale (le gigantografie di Marilyn che tappezzano le metropoli). Il lavoro critico e di raccordo condotto da Dominik sull’immaginario, sull’archivio e il deposito memoriale delle immagini di Marilyn, interviene come un liquido di contrasto che sporca la soffice e splendente compostezza delle pellicole della classicità cinematografica mostrandone il “negativo” in ombra, il dietro le quinte, il fuoricampo. Lontano dalla tentazione del pigro re-enactment, nel tornare sulle scene e sulle clip dei film più famosi Dominik opera dei bruschi slittamenti: ad esempio troncando sul più bello l’esibizione canora di Marilyn in A qualcuno piace caldo (1959), staccando sulla sfuriata rabbiosa della diva che si strappa di dosso gli orecchini per inveire brutalmente contro Billy Wilder. Ancora una volta, il cerchio di luce soave che illumina il palcoscenico, e lo specchio scuro che ne frantuma i riflessi.
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